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Viaggiatori romeni dell’Ottocento in Italia

di Ştefan Damian

All’inizio dell’Ottocento, lo spazio italiano non era ancora una meta preferita per i giovani romeni, interessati molto di più alla Francia, paese che per molti si confondeva allora col nome di Napoleone e l’ideale di libertà desiderata in un periodo politico particolare: i due principati, la Valacchia e la Moldavia, erano sotto il dominio turco e tutte le altre provincie storiche romene erano sotto il dominio austriaco o russo.

È pur vero che una ben limitata parte del clero greco-cattolico romeno aveva studiato a Roma, taluni dei suoi rappresentanti rimanendo fino alla fine della loro vita nella capitale del mondo ecclesiastico, com’era successo con uno dei più insigni rappresentanti del movimento conosciuto col nome di Scuola Transilvana.

Un caso interessante, però, con implicazioni profonde è quello in cui si trova un giovane moldavo, Gh. Asachi, figlio di un sacerdote ortodosso, il quale, dopo gli studi fatti a Lemberg-Leopoli, studia polacco, tedesco e latino e si decide, per motivi di salute, a passare un periodo in Italia. Ed eccolo il giorno 13 aprile 1808 abbandonare Vienna, dove aveva già trascorso tre anni e valicare i territori del Carso, fermandosi a Trieste, Venezia, Padova, Ferrara, Bologna, Firenze, Barberino, Siena, Viterbo. Nei suoi manoscritti ci sono descrizioni rilevanti di tutte le meraviglie architettoniche incontrate, perché Asachi non si era laureato in filosofia, come aveva sperato agli inizi degli studi, ma in ingegneria e, dunque, aveva rivolto all’architettura una particolare attenzione. L’11 giugno del 1808 si trovava già alle porte di Roma. Sin da Baiano, ci informa il grande storico della letteratura romena G. Călinescu[1] - ex alunno dell’Accademia di Romania in Roma - era impaziente di vedere la città, considerata romanticamente la vera culla della nazione a cui apparteneva. Arrivato alle porte di Roma, il giovane studioso romeno tentò di vedere la cupola di San Pietro attraverso la porta della piazza del Popolo, difesa allora dalle truppe francesi! Se diamo credito al già citato Călinescu, Asachi credeva di essere il primo romeno in visita a Roma, città abbandonata dai suoi antenati 1800 anni fa!

In compagnia di un abate e di un pittore si diresse verso la colonna traiana, meta obbligata anche per gli altri viaggiatori romeni: Ion Codru Drăguşanu, Badea Cârţan, Sextil Puşcariu e per una lunga serie di scrittori o di semplici viaggiatori che vedevano nella celebre colonna l’atto di nascita del popolo romeno. Poi, Asachi visita San Pietro, sale nella cupola e ammira il meraviglioso e indimenticabile panorama della città, visita il Pincio, che tanto attirava l’attenzione di un altro scrittore, Ion Păun, da spingerlo ad aggiungere al proprio nome anche l’appellativo di Pincio! Poi, desideroso di capire subito in che cosa stava la grandezza della città eterna, visita con la più grande attenzione la via Appia che gli lascia un’impressione indimenticabile e lo fa ripensare alla caducità della gloria.

Il 18 agosto 1808 parte per Velletri e Terracina. Durante il viaggio ha il privilegio di incontrare la moglie di Murat, Charlotte. La permanenza napoletana gli permette di visitare le biblioteche, i musei, il teatro San Carlo, la chiesa di San Gennaro e, insieme ad un gruppo di quattro audaci, parte per Portici e Resina e sale sul Vesuvio, dove brucia una bandiera di carta dopo averla accesa con le fiamme del celebre vulcano! Non si lascia sfuggire Pompei e le considerazioni sulla vita dei suoi abitanti non mancheranno di trovare posto tra le sue carte. Di ritorno a Roma prende alloggio in via dei Condotti, presso la famiglia Picconi; qui si innamora di Teresina, la cognata del proprietario diventato amico, con il quale fa spesso battute di caccia e letture all’aria aperta nei pressi della città. Grazie alla moglie di Picconi, a quei tempi una celebre cantante, ha la possibilità di conoscere la principessa Ruspoli. È questo l’inizio del suo ingresso nell’alta società romana del tempo. In un negozio di Piazza di Spagna incontra Bianca Milesi, una pittrice milanese, grazie alle cui relazioni conosce Canova e altri scultori e pittori allora in voga. Bianca lo porterà un po’ dappertutto, gli fa studiare l’opera di Alfieri, lo introduce in casa della duchessa Odescalchi, dove conosce il generale francese Miollis, il comandante della guarnigione francese di stanza a Roma. Già nel 1809 comincia a verseggiare, scrivendo poesie che sanno di Petrarca e degli arcadici. Firma con il nome arcadico Alviro Dacico[2] molti sonetti scritti in italiano per Bianca Milesi; altrettanto fa anche lei, firmando le proprie rime con diversi nomi, tra cui Leuca e Cinzia. Asachi è assai impaziente di farsi accettare nella società romana e nel 1812 pubblica sul Giornale di Campidoglio un sonetto dedicato alla sig.ra Blanchard, dopo il suo secondo volo col pallone. Secondo il già citato Călinescu, da Roma, nel giugno del 1812 parte per Milano dove conosce Vincenzo Monti insieme al quale va a Venzago, in visita dalla madre di Bianca Milesi. Di là i suoi interessi lo porteranno a Verona e a Venezia, dove si imbarca su una nave per la Turchia, portando con sé per sempre la nostalgia della capitale del mondo, ripromettendosi di non dimenticarla mai.

Ottimo conoscitore della lingua italiana, delle opere di Dante, Boccaccio, Castiglione, Ariosto, Foscolo, Poliziano, Bembo, Goldoni, Metastasio, Asachi resterà per sempre un modello di inserimento in una cultura che vantava già numerosi secoli di esistenza e che tanto ha dato al mondo.

Rispetto a lui, il transilvano Ion Codru Drăguşanu (1818-1884) era più attento agli elementi esteriori tanto a Roma quanto Napoli, ed osservava la dimensione negativa delle rispettive città. A Napoli, questo giornalista ante litteram rimarcava che intorno ad un ceppo tondo si mettevano seduti in mezzo alla piazza, il padre, la madre ed i figli, uno in braccio all’altro per mangiare e che le paste venivano servite con le mani. Sempre l’aneddoto catturava l’attenzione del valacco Dinicu Golescu negli anni 1824, in visita a Trieste, Torino e Milano.

Negli anni a venire una serie di patrioti e rivoluzionari del ’48 romeno trovava accoglienza sul territorio italiano. Qualche decennio più tardi, sempre nel periodo del Risorgimento, altri romeni combattevano nell’esercito garibaldino, ottenendo il riconoscimento del loro valore da parte dello stesso Garibaldi e dei suoi luogotenenti.

Gli anni del Risorgimento italiano corrispondono a quelli del Risorgimento romeno: pur vivendo in numerose entità statali (nove stati italiani prima dell’Unità, alcune regioni sottomesse all’Austria, due stati romeni sotto dominio turco più altri territori sotto il dominio austriaco e russo) i due popoli hanno avuto i loro momenti di affermazione liberale e democratica durante le rivoluzioni del 1848 (preparate dai carbonari massoni e da intellettuali emigrati soprattutto a Parigi e a Londra). Nelle terre romene, l’italiano Marco Antonio Canini, l’autore della canzone Addio, mia bella, addio, fu uno dei più rappresentativi diffusori delle idee mazziniane e garibaldine, suscitando un’onda di simpatia tra gli abitanti dei due Principati.

I gruppi mazziniani di Londra, Parigi e Torino avevano attratto subito numerosi giovani romeni che studiavano nelle rispettive città. È il caso, ad esempio, di Nicolae Bălcescu, il quale fondava, nel 1849 a Parigi, insieme a Dimitrie Brătianu l’Associazione romena per la direzione dell’emigrazione. I due conoscevano già le realtà italiane, si erano da un po’ di tempo messi in contatto con Mazzini ed altri esuli italiani, polacchi, ungheresi. L’adesione alle idee di Mazzini, incontrato a Londra dal giovane Dimitrie Brătianu, ha presupposto anche la firma congiunta di numerosi documenti e proclami mazziniani[3]. Lo stesso Brătianu manteneva il collegamento tra i gruppi liberali di Londra e Parigi e portava i messaggi di Mazzini al francese Jules Michelet.

Non solo la comune origine latina rivendicata fortemente, il più delle volte, nei momenti di massimo sforzo di identificazione con i propri ideali, ma anche numerose similitudini storiche hanno contribuito ad una decisa affermazione dell’orgoglio neolatino in contrasto con le non poche entità statali considerate, giustamente, se non addirittura nemiche, almeno contrarie alle legittime aspirazioni nazionali dei due popoli.

L’ammirazione per Mazzini si era manifestata fino alla sua scomparsa, nel 1872. In occasione della morte a Pisa, tanto Dimitrie Brătianu quanto C.A. Rosetti pubblicavano una serie di articoli pieni di elogi sul giornale Românul di proprietà di Rosetti. Brătianu scriveva: Ho solo parole di rincrescimento e d’ammirazione - non posso farne di più - per il geniale uomo dabbene e gran patriota che ha dedicato tutta la sua vita all’Italia e all’intera umanità. L’opera di questo gigante ha avuto qualcosa di sovrannaturale; per questo motivo la sua attività è stata immensa, incommensurabile. Per le generazioni future, Mazzini sarà una leggenda, un mito. Aveva una viva immaginazione, una gran memoria, un ammirevole buon senso, un sano giudizio; aveva spirito e presenza di spirito [4].

I Principati romeni hanno raggiunto una prima tappa dell’unità statale nel 1859 (l’unione della Valacchia con la Moldavia), mentre l’Italia otteneva lo stesso risultato nel 1861 in seguito alle azioni garibaldine iniziate a maggio del 1860.

Nel 1859, la corte sabauda aveva sostenuto le aspirazioni romene per raggiungere l’unità nazionale. Di rimando, quando Garibaldi si preparava per salpare da Quarto (5-6 maggio 1860), i romeni non soltanto dei due Principati, ma anche alcuni di quelli che allora vivevano nell’Impero austriaco in Bucovina, Transilvania, Banato, nel Maramureş e Crişana, sostennero sulla stampa le idee mazziniane (Nicolae Bălcescu, un insigne autore di storia patria scomparso nel 1852 a Palermo aveva già definito Mazzini il più gran rivoluzionario europeo e dunque aveva contribuito alla diffusione del suo mito tra gli esuli romeni). Però, un contributo altrettanto importante all’affermazione dell’idea nazionale italiana fu dato anche con le armi dai volontari che combattevano tra i Mille; sono stati identificati numerosi combattenti e si sa che il loro numero superava 60 fanti e 10 ufficiali. Molti di loro combattevano insieme al corpo dei volontari ungheresi, altri in altri reparti.

Per quanto riguardava il livello ufficiale, una prima missione romena giunse in Italia il 12 novembre 1860 ed era formata dai capitani Cernovodeanu, Dunca e Holban, dai luogotenenti Anghelescu e Algiu, dai sottotenenti Dimitrescu, Paleologu e Crupenschi. Da Torino gli ufficiali romeni raggiunsero il generale Manfredo Fanti (Capo dello Stato Maggiore dell’Esercito Italiano e futuro Ministro della Guerra) a Napoli, con la raccomandazione del Governo piemontese di offrir loro la possibilità di prendere parte ai combattimenti di Gaeta (dove si era rifugiato Francesco II, combattimenti conclusi il 14 febbraio 1861). I romeni si erano subito distinti sul campo di battaglia e per il loro coraggio e la loro audacia furono insigniti il 1° aprile 1861 (George Anghelescu e l’artigliere Alciu) dell’Ordine militare di Savoia nel grado di cavaliere.

In una lettera del generale Fanti al generale romeno Florescu, il comandante italiano apprezzava i fatti d’arme dei due romeni e chiedeva l’intervento del generale romeno presso il principe Cusa, perché i due romeni potessero esibire in pubblico le medaglie a loro concesse. Dal lato propagandistico, il giornale Românul dava risalto all’apprezzamento di cui godevano i rispettivi connazionali in Italia. Gli altri membri della missione rimasero fino alla fine delle operazioni, nel 1865, anno in cui il Governo italiano conferiva ai maggiori Cernovodeanu e Nicolae Dunca, al capitano Holban e ai luogotenenti Dimitrescu e Crupenschi la “medaglia commemorativa delle campagne delle guerre d’indipendenza degli anni 1860-1861”. Essi avevano preso parte ai combattimenti di Gaeta, dove Dunca era stato ferito ben due volte. Tra le forze di Stefano Turr c’erano numerosi romeni, tanto che nella battaglia del Volturno morirono due soldati romeni, Nicolae Stoica e Crişan.

Un esempio di dedizione alla lotta per l’affermazione delle idee liberali e per l’unità d’Italia ce la offre un altro romeno, Titus Dunca, fratello minore del già nominato Nicolae. Nato il 6 gennaio 1845 a Iassi, figlio di Stefan e Sofia Dunka, nel 1862 era già studente a Napoli, dove diventò fervente aderente alle idee mazziniane. Nello stesso anno, dopo aver atteso invano da Mălinescu (amico di Rattazzi) la fondazione della legione a Torino, entrò nella legione ungherese, prendendo parte alle lotte contro i Borboni e i briganti. Nel 1863 incontrò Garibaldi a Caprera, dopo di che passò attraverso la Polonia nei Principati romeni. Lavorò in Turchia e al Canale di Suez. Nel 1866 era nuovamente in Italia per prender parte ai combattimenti contro l’Austria, però fu mandato nei Principati romeni insieme a Stefano Turr, latore di una lettera di Garibaldi a C.A. Rosetti con cui il generale italiano raccomandava il fratello d’armi Stefano Turr, perché Garibaldi voleva organizzare una spedizione contro l’Austria in Dalmazia e in Transilvania.

Nel 1866, dopo l’insediamento a Bucarest del nuovo governo (in seguito all’abdicazione di Cuza), Garibaldi sperava di poter far scoppiare nella regione balcano-danubiana una rivoluzione che avrebbe messo in difficoltà l’Impero austriaco; e, infatti, lo scoppio della guerra tra i prussiani e gli austriaci l’8 giugno 1866 aumentò in Austria la paura di un imminente attacco romeno, dal momento che il conte Montenuovo, governatore della Transilvania, aveva a disposizione poche truppe per la difesa della provincia.

Per questo motivo si doveva preparare un corpo di volontari di 30.000 persone (D. Brătianu su Românul del 24-26 aprile 1866, nell’articolo Apărarea teritoriului sau drepturile noastre). Già nel giugno dello stesso anno il generale Gh. Magheru aveva preparato un corpo di 10.000 volontari per ogni evenienza.

Titus Dunka ritornò in Italia e il 21 luglio 1866 prese parte ai combattimenti di Bazzecca, dove fu ferito ed insignito della medaglia "al valor militare" ottenendo così il grado di capitano. Garibaldi, si dice, gli abbia rivolto le seguenti parole: Ecco, per il caro Tito, degno fratello di Nicola! [5] Accompagnò Garibaldi, nel settembre, da Monza a Firenze, poi girovagò per l’Italia visitando Napoli, Roma, Caserta, Bologna.

Tornato in patria, per riprendere le armi in difesa della Francia durante la guerra del 1870-1871, combattendo insieme ai suoi cari amici italiani, nella legione straniera, a Orleans, riportò nuove ferite in una cruenta battaglia, dove di 1490 fanti se ne salvarono solo 39.

La guerra d’indipendenza romena del 1877-1878 contro i turchi lo trovò alle armi. In tale occasione Garibaldi gli scrisse: Caprera 17 ott. 1877. Caro Dunka. Noi siamo orgogliosi dei valorosi nostri fratelli romeni e speriamo nella piena vittoria contro i barbari. Un cordiale saluto dal cuore a tutti. G. Garibaldi.

Molto interessanti ci sembrano le immagini dell’Italia descritte da Sextil Puşcariu quando nel 1898, a 21 anni, visitò per la prima volta l’Italia. La rivide nel 1914 e poi, successivamente, parecchie altre volte, tanto da poter affermare, quando dopo la seconda guerra mondiale scrisse le sue Memorie, che gli era difficile non mescolare le immagini delle numerose visite e che non desiderava fermarsi sui quadri visti a Firenze o in Vaticano. Allo stesso tempo non voleva lasciarsi influenzare da quanto scritto sul Baedecker, perché era desideroso di raccontare tutto quanto aveva visto con i propri occhi, e non con quelli degli altri. Talvolta le immagini descritte sono di una sincerità disarmante; a Milano, I musei e le chiese (...) mi hanno stordito con le tele di Verrocchio, Bellini, Mantegna, Luini, Solario, Veronese e altri, senza poter distinguere tra altri Fra Filippo Lippi e Filippino (…). Dopo Genova, Pisa, Firenze, arrivato a Roma resta sorpreso dall’immagine di una città rumorosa, piena di commercianti che strillano, di contadini venuti in città dai villaggi che la circondano, da facchini, un gruppo senza fine di italiani che irrompono gridando “cane nero”, “cavallo rosso” o “majale verde”. Se non avessero berretto con le scritte Albergo Italia, Hotel Central si potrebbe credere che stanno proferendo delle bestemmie [6] . Il nostro viaggiatore si reca poi in piazza dei Cinquecento, in Vaticano, ammira i resti della città antica (il Colosseo, le mura) e ci racconta, in immagini sovrapposte, le successive avventure romane di Badea Cartan, una storia strana che abbina verità e immaginazione. Non mancano gli apprezzamenti per i gesti del marchese Pandolfi, il grande filo-romeno, o per Pio X, indicato con le parole il gran bel vecchio racchiuso tra le mura Vaticane, o i ricordi delle stradine romane e l’impressione profonda lasciatagli dalla colonna traiana. Le belle serate trascorse a Napoli non restano senza tracce nella sua memoria affettiva: sono ricordati, tra gli altri, non solo il Museo Nazionale con i suoi bronzi, coi suoi vasi dipinti, ma anche una semplice pescheria, di fronte ad un bicchiere di vino nero, perché da buongustaio il nostro illustre compatriota non poteva non apprezzare, con la stessa disinvoltura con la quale rimarcava le bellezze di Amalfi o Salerno, anche l’arte della cucina partenopea.

Note

[1] Călinescu 1982, p. 96.
[2] Cfr. Călinescu 1982, p. 95.
[3] Cfr. Marcu 1924; IDEM 1930; Isopesco 1937; Delureanu 2005; IDEM 2006.
[4] Cfr. Netea 1972.
[5] Cfr. Netea 1972.
[6] Cfr. Puşcariu 1968, p. 91.