di Maria Caccamo Caltabiano
Il Corpus Nummorum Italicorum, con le sue più che 100.000 monete, ha gettato le basi per lo studio della monetazione delle regioni italiche dalla fine dell’impero romano al XX secolo, [1] riflettendo la volontà di Vittorio Emanuele III di dimostrare l’esistenza de facto di una unità italiana già prima della proclamazione del regno d’Italia [2]. I tipi monetali adottati dal sovrano sulla propria monetazione ne attestano invece l’interesse, la conoscenza, direi quasi la "dimestichezza" che il sovrano ebbe con la monetazione di età classica. La scelta delle iconografie, in alcuni casi sapientemente espressa da abili incisori, riguarda spesso immagini semplici e di grande impatto visivo, o visioni più complesse arricchite da un gusto scenografico alimentato dalle contemporanee influenze dello stile liberty, reinterpretato nel famoso "floreale" italiano [3].
E’ possibile distinguere la monetazione battuta a nome di Vittorio Emanuele III in tre periodi fortemente connotati dal punto di vista storico e caratterizzati dalla diversità di iconografie che riflettono l’esistenza di un forte substrato ideologico. La periodica coniazione di nominali in oro, dal valore di 100 lire, consente di cogliere il fil rouge delle scelte di senso operate dal sovrano, mettendo in luce l’esistenza di una gerarchia all’interno della quale si delineano i valori cui egli si sarebbe appellato nel corso del suo lungo regno. Il primo periodo di coniazione - dominato dall’aquila savoiarda - guarda alla tradizione e al passato; del secondo periodo è protagonista la figura femminile dell’Italia, per la prima volta personificata e declinata in ruoli e atteggiamenti che riflettono le linee portanti della politica del sovrano; il terzo periodo, occupato soprattutto dalla propaganda fascista e dai suoi simboli, riflette l’impossibile "sogno" imperiale vagheggiato da Vittorio Emanuele III e dal suo Duce, conclusosi per la nazione italiana con un tragico epilogo.
Figura 1 e 2
I Periodo: l’Aquila Savoiarda
Re Umberto I era stato assassinato dall’anarchico Bresci il 29 luglio del 1900. Già agli inizi del 1901 [4] vennero battute a nome del giovane re le sue prime monete, caratterizzate dal tipo che lo stesso sovrano definiva dell’ "aquila Savoiarda". Vittorio Emanuele voleva dare da subito una impronta personale alla sua monetazione. A tale scopo aveva fatto chiamare al Quirinale lo scultore Filippo Speranza, incisore capo nella zecca di Roma, che aveva già lavorato per Umberto I ma che si mostrava restio a cambiare i tipi tradizionali della monetazione del regno d’Italia. Furono ideati sei diversi modelli e il sesto fu quello definitivo; il decreto che ne fissava le caratteristiche fu firmato il 7 marzo del 1901 [5].
Rispetto alle monete del nonno e del padre, caratterizzate dal semplice scudo di Casa Savoia, crociato e coronato, con appeso il collare dell’Annunziata e circondato dalla corona di alloro [6], Vittorio Emanuele III scelse un’aquila frontale con grandi ali dalle piume aperte a ventaglio, sovrastata da una grande corona (fig. 2). L’aquila non era stata assente nella precedente tradizione iconografica di Casa Savoia. Nei decenni a cavallo fra il Duecento e il Trecento, per primo Amedeo V, conte di Savoia XIV (1253-1323), quasi ad un secolo di distanza dall’esperienza di Federico II che aveva adottato l’aquila al rovescio del suo Augustale d’oro (battuto nel 1231 a Brindisi e a Messina), aveva emesso "grossi" d’argento con aquila frontale ad ali dispiegate sul diritto e la croce patente sul rovescio [7]. Solo nel ‘700, a distanza di quasi cinquecento anni, l’aquila era ricomparsa sulla monetazione di Casa Savoia. Vittorio Amedeo II - negli anni in cui era stato re di Sicilia (1713-1718) - aveva ripreso il soggetto dell’aquila frontale ad ali dispiegate con scudo crociato sul petto su una rara emissione di tarì [8]. Qualche decennio più tardi Carlo Emanuele III, secondo re di Sardegna, fra il 1743 e il 1746 ne aveva assunto il tipo sullo zecchino d’oro (ma anche sui multipli e sottomultipli coniati nel medesimo metallo), dotando l’aquila di una corona sul capo e circondandola col collare dell’Annunziata (la massima onorificenza di Casa Savoia istituita da Amedeo VI nel 1362); al diritto del nominale maggiore compariva la scena dell’Annunciazione [9] (fig. 3).
Figura 3
Seguendo l’esempio paterno anche il figlio Vittorio Amedeo III, negli anni 1786-1796 aveva connotato con l’aquila i diversi nominali battuti in oro e i grossi nominali in argento, ponendo sul petto del rapace lo scudo dei Savoia e negli artigli lo scettro, il bastone e il collare dell’Annunziata [10].
In questa nuova versione il tipo era stato ripreso dai suoi diretti successori Carlo Emanuele IV (negli anni 1797-1800) [11], e Vittorio Emanuele I [12] (nel periodo 1814-1815) che, tuttavia (come aveva già fatto anche il suo predecessore [13] ), aveva finito col relegare un’aquila di piccole dimensioni al centro di un ricco scudo sabaudo circondato dal solito collare [14] (fig. 1). In seguito più nulla, ad eccezione di Umberto I che, nel 1891 e nel 1896, aveva realizzato una versione italiana del tallero di Maria Teresa, destinata alla colonia d’Eritrea - annessa all’Italia nell’anno precedente, dove l’aquila coronata, con scettro, bastone e collare negli artigli, era tornata a caratterizzare le grosse monete in argento di circa 28 g (fig. 4), impiegate principalmente nei commerci del Corno d’Africa [15]. Un tentativo di affermazione economica ripreso più tardi anche da Vittorio Emanuele III (fig. 5) [16].
Figura 4 e 5
Scrivendo al suo antico maestro, il generale Egidio Osio [17], in una lettera del 9 marzo 1901, accompagnata da uno scudo con la propria effigie (in argento, da lire 5), il re aveva dichiarato "spero che le piacerà l’aquila Savoiarda che io stesso ho fatto disegnare" [18]. Ma se l’aquila non era stata estranea alla tradizione iconografica delle monete di Casa Savoia, in che cosa consistevano le novità volute dal sovrano?
Rispetto ai suoi predecessori la versione dell’aquila scelta da Vittorio Emanuele III appare in realtà semplificata (mancano lo scettro, il bastone e il collare dell’Annunziata), la caratterizzano invece due nuovi elementi, entrambi di antica tradizione: i nastri del diadema che svolazzano dalla corona e in basso tre fiori di loto stilizzati (fig. 6), che sembrano fiorire dalle penne caudali del rapace. I due elementi, assenti nell’iconografia monetale medievale e moderna dell’aquila Savoiarda, erano due soggetti ricchi di antichi simbolismi. Il diadema era stato insegna del potere basilico dei sovrani Achemenidi e poi di quelli di età ellenistica, e i suoi lacci avevano legato anche la corona d’alloro degli imperatori romani e il diadema indossato dal Dominus in età tardo imperiale [19]. Il loto era stato uno dei simboli prediletti dalla cultura orientale. Questo fiore che si distende sulla superficie di acque stagnanti era inteso quale simbolo di purezza, di luce e di apertura spirituale, ma anche di rigenerazione e di rinascita [20]. Sulle monete greche - soprattutto di ambito orientale - lo troviamo sia come soggetto principale [21] che come attributo insieme a simboli di regalità come il leone [22] (fig. 7) o la Sfinge [23]; lo tengono in mano sia Afrodite [24] che Ahura Mazda nel momento in cui il dio sorge dal disco solare. Il loto adorna anche la parte terminale dello scettro di Zeus [25] e, in particolare, lo scettro di Iside nell’iconografia adottata da Tolomeo II per la moglie divinizzata Arsinoe II [26]. Ed è proprio in Egitto che il piccolo Horus, immagine del Sole nascente, era rappresentato nell’atto di sorgere dal fiore di loto, divenendo simbolo di nascita e di rinascita, e nell’ideologia regale metafora di avvicendamento e di successione dinastica [27]. Tale significato non credo dovesse essere ignoto alla famiglia regale Savoiarda, che già nel 1824 era stata responsabile della creazione del "Regio Museo delle Antichità Egizie" [28], per cui nell’ottica di Vittorio Emanuele III i fiori di loto dovevano essere immagini benaugurali degli inizi del suo governo.
Figura 6 e 7
Quanto al tipo dell’aquila con penne a raggiera non è escluso che il giovane re, che era stato principe di Napoli, familiare quindi con quell’ambiente meridionale in cui l’aquila era stata il soggetto monetale prevalente dai Normanni ai Borboni, avesse voluto rinverdire una tipologia che non era stata estranea alla sede del suo Principato [29]. Inoltre, per antica tradizione, l’aquila [30], meglio di altri soggetti iconici, si prestava ad esprimere l’idea di una regalità avvertita non tanto come personale quanto idonea a significare l’identità di un "Regno d’Italia" che per la prima volta veniva designato come tale sulla monetazione emessa da un sovrano italiano. Le legende "Vittorio Emanuele III" al D/ e "Regno d’Italia" al R/ venivano infatti a sostituirsi all’unica iscrizione che, dopo il raggiungimento dell’Unità, aveva designato sia Vittorio Emanuele II che Umberto I come "Re d’Italia". Un cambiamento, quello voluto da Vittorio Emanuele III, di non poco conto che riconosceva nel sovrano e nella collettività governata due entità distinte e in reciproca relazione - sottolineata quest’ultima dalla loro compresenza sulle due facce della stessa moneta -, e sottintendeva forse non soltanto l’idea di un rapporto dialettico e la modestia di un re che aveva assunto il potere da giovane, ma anche quel cambiamento di mentalità in senso "positivista" che intendeva il potere sovrano non più come "possesso" di una nazione quanto piuttosto come "servizio" nei suoi confronti [31].
II Periodo: La personificazione dell’Italia
Nel frattempo il re pensava tuttavia a nuovi tipi e ad immagini correlate ai principi ispiratori del suo governo. Lo rivelano i numerosi "progetti" e le "prove" di tipologie, alcune delle quali non sarebbero mai state impiegate sulla moneta ufficiale, o che - in alcuni casi - sarebbero state utilizzate soltanto in seguito [32].
Nel Discorso della Corona del 20 febbraio 1902 Vittorio Emanuele aveva gettato le basi della politica che desiderava intraprendere in nome della giustizia sociale e "in sollievo" delle classi lavoratrici. "Sono felici portati della civiltà nuova l'onorare il lavoro, il confortarlo di equi compensi e di preveggente tutela, l'innalzare le sorti degli obliati dalla fortuna. Se a ciò Governo e Parlamento provvedano, egualmente solleciti dei diritti di tutte le classi, faranno opera memoranda di giustizia e di pace sociale". Il riflesso dell’ impegno del sovrano nella promozione e tutela del lavoro e del sostentamento delle classi meno abbienti trovava riscontro fin dal 1903 in alcuni progetti ideati da Egidio Boninsegna per nominali in oro o metallo dorato, da 100 e 20 lire.
Figura 8
Figura 9
Una Minerva stante, la dea di tutte le arti, veniva rappresentata nell’atto di affiancare un’Italia/Agricoltura carica di messi [33] (fig. 8); una donna velata e sdraiata, appoggiata ad una pala e con in mano un fascio di spighe (Cerere [34] ), era affiancata sullo sfondo da due bastimenti [35] (fig. 9); il medesimo personaggio, in posizione eretta, con il capo velato e turrito si accompagnava ai due buoi dell’aratro [36]. Né mancavano soggetti di tipo naturalistico: nel 1906, su progetto di Pietro Canonica, una grande ape (fig. 12), ispirata al celebre tipo della moneta di Efeso [37] (fig. 13), ma accompagnata dall’iscrizione Sedula in pace laborat, contrassegnava la prova di una moneta da 20 lire in metallo dorato [38].
Il 7 Giugno 1905, accogliendo le istanze del filantropo David Lubin il re si era fatto promotore dell’ "Istituto internazionale di agricoltura", il primo ente a carattere internazionale per la cooperazione in materia agricola, che più tardi, nel 1945, avrebbe dato luogo alla Food and Agriculture Organization of the United Nations (FAO). L’Istituto cominciò ad operare nel 1908, e anche se provvedeva soltanto alla raccolta di dati relativi all’agricoltura, ad informazioni statistiche, tecniche ed economiche, il re ne sottolineò tutta l’importanza storica e sociale definendolo - in un messaggio inviato a Giolitti nel 1905 - "organo di solidarietà fra tutti gli agricoltori e perciò elemento poderoso di pace".
Frattanto nell’ aprile del 1905 il Ministero del Tesoro [39] aveva bandito un concorso nazionale per nuovi tipi di monete metalliche richiedendo, per il nominale da venti centesimi di nichelio, un tipo incuso "ispirato alle antichissime monete italiche, a quelle cioè della Magna Grecia (di Taranto, Metaponto, Sibari, Crotone, ecc.), coniate nel V sec. a.C." allo scopo di far rivivere "sotto una nuova forma, un tipo monetario schiettamente nazionale" [40]. Su suggerimento di Solone Ambrosoli, Direttore del Museo Numismatico di Brera, era stata ricopiata la grande spiga d’orzo adottata da Metaponto (fig. 11) fin dai suoi primi stateri con tecnica incusa [41]; era stata realizzata, tuttavia, con l’immagine a bassorilievo sia al diritto che al rovescio della moneta [42] (fig. 10).
Figura 10
Figura 11
Figura 12
Figura 13
Il concorso non aveva avuto i risultati sperati e a giugno del medesimo anno si affidò il compito di allestire i modelli per i quattro differenti metalli a quattro fra i più noti scultori italiani.
Contemporaneamente all’avvio dei lavori per la costruzione della nuova zecca di Roma [43] ebbe inizio il rinascimento iconografico della moneta [44]. Per la prima volta, dopo lunghi secoli di quasi esclusiva presenza maschile, la moneta italiana celebrava il trionfo della figura femminile. In essa si incarnava l’Italia, che nella figura dell’Aratrice dalla testa turrita, si proclamava Signora di Città e novella Tyche poleos, ma al tempo stesso, raffigurata su diversi nominali e metalli, si declinava - secondo una visione gerarchica [45] - in figure allegoriche di donne dal ruolo e dall’età differente, secondo l’ideale e tradizionale modello di Demetra, la Madre, e di Kore/Persephone, la Figlia.
Figura 14
Figura 15
La personificazione dell'Italia [46] aveva preso le mosse in epoca risorgimentale per iniziativa del Governo Provvisorio
della Lombardia, nel breve periodo della sua durata (1848). Tre emissioni [47] avevano recato al diritto l’Italia
turrita e matronale, riccamente panneggiata, stante con lunga lancia nella mano destra, volta ad indicare con la sinistra il nome di
Dio nella legenda ITALIA LIBERA - DIO LO VUOLE [48] (fig. 14). L’Italia ideata per Vittorio Emanuele III era invece una giovane e
fiorente Italia agricola, l’ "Aratrice", raffigurata con un fascio di spighe sul braccio e la mano destra poggiata sull’aratro (fig. 15).
La tipologia era stata ideata già nel 1907, ma dovette essere perfezionata, e fu approvata solo nel 1910 allorché - caso unico nella monetazione del sovrano -
venne adottata su ben quattro nominali coniati in oro, da cento, cinquanta, venti e dieci lire [49].
La donna dal profilo delicato, con i capelli acconciati sulla nuca, il corpo dal busto pieno
sontuosamente panneggiato ed esaltato dall’ampio mantello che si allargava dietro le spalle (fig. 17), traeva certo ispirazione dalla
figura della regina Elena (fig. 16), la giovane moglie montenegrina, bella, alta, elegante, teneramente amata dal sovrano cui aveva già donato quattro figli.
Lo stesso fascio di spighe - in linea con la tradizione classica che ne aveva fatto l’attributo principale della dea delle messi, Demetra/Cerere -,
con l’esaltare il ruolo fecondo della donna, ne celebrava la funzione materna. Il modello, ideato da Egidio Boninsegna, riproponeva - non sappiamo
con quanta consapevolezza - l’antico schema della coppia regale, che aveva costantemente trovato nell’elemento femminile l’incarnazione vivente
della collettività dei cittadini che, attraverso un rapporto sponsale, attribuiva il potere politico al governante, e ne sanciva il ruolo di
proprio Signore e Difensore [50].
Non a caso il re compariva ora, al diritto della moneta, non più rappresentato con la sola testa ma, anche se sempre a capo nudo, con il busto abbigliato
con la divisa militare (fig. 15, diritto).
Figura 16 e 17
L’ideologia della pace, accomunata a quella della Vittoria, era ripresa invece sui due nominali in argento emessi a partire dal 1908. Su una quadriga in arrivo al galoppo si erge un’Italia guerriera, con scudo nella sinistra e ramo di ulivo nella destra, balzata in piedi dall’alto trono visibile alle sue spalle (fig. 18). Anche se al diritto il ritratto del sovrano è rappresentato in alta divisa militare (il collo circondato dal collare dell’Annunziata), ed esaltato dall’ampia corona circolare all’interno della quale si inserisce la legenda VITTORIO EMANUELE III RE D’ITALIA, l’idea che si vuol comunicare è quella di un potere vittorioso, fondato sulla pace e connotato da un dinamico rinnovamento [51].
Anche il tipo della quadriga non trovava confronti né sulle monete dei suoi predecessori né su quelle di altri sovrani, alcuni dei quali ne avevano fatto il soggetto di medaglie commemorative di vittorie o degli inizi di un regno, rappresentando su di esse l’imperatore o la coppia imperiale, più raramente la figura di Sol o quella della Vittoria. La scelta di farne il carro su cui arrivava in corsa l’Italia si innestava nel filone della più antica tradizione classica, risalendo indietro direttamente alle esperienze siciliane dell’epoca dei Maestri firmanti, allorché diverse città avevano rappresentato quale auriga della quadriga in corsa la personificazione della Città o la divinità poliade [52]. Anche dal punto di vista dello stile e dello schema iconico la quadriga veloce degli argenti di Vittorio Emanuele III sintetizzava in un’unica visione elementi tipici dei tetradrammi siracusani di Sosion ed Eumenes [53] (fig. 19) e di alcuni decadrammi di Euainetos [54], sui quali le silhouettes dei cavalli aggettavano l’una sull’altra, e le loro protomi, così come le zampe, venivano rappresentate strettamente parallele.
Figura 18, 19 e 20
La suggestione dell’auriga femminile armata, dominante in posizione eretta al centro della scena, evocava attraenti immagini già sperimentate - in ambito monetale - con le quadrighe guidate da Athena [55] su alcuni tetradrammi di Camarina (fig. 20), o con quelle aventi quale auriga una possente Persephone con in mano la fiaccola, su una ricca emissione di Siracusa del penultimo decennio del V sec. a.C. [56].
Il fascino delle mitiche figure di età classica traspariva anche dal tipo adottato al diritto del pezzo da venti centesimi: l’antica dea delle messi [57] veniva reinterpretata in un vigoroso busto femminile di profilo, innanzi al quale si stagliava la mano che stringe la spiga [58] (fig. 21, dritto). Fungeva da contrappunto sul rovescio la bellissima immagine della "Libertà librata" (fig. 21, rovescio), aerea figura in volo trasversale, concepita nella piena influenza dell’Art Nouveau, e al tempo stesso attraente immagine di Kore/Persephone dalle lunghe chiome, con le membra interamente visibili sotto il panneggio della veste trasparente, e con in mano la fiaccola, simbolo di luce e "testimone" che passa dalle mani della vecchia alla nuova generazione [59]. Contemporaneamente, sui bronzetti da cinque centesimi, l’Italia "marinara" avanzava leggera sulla prua di una nave con la grazia leggiadra di una fanciulla, i capelli e gli abiti mossi dal vento, recando nella destra il ramo di ulivo e stendendo la mano sinistra verso il basso, quasi a placare le acque visibili intorno alla nave [60] (fig. 23). Anche se non identica nello schema, l’unica divinità ad essere stata rappresentata su una nave in moto, nell’atto di tenere dispiegata la vela, era stata Iside Faria [61], ancora una volta una divinità egizia (fig. 22).
Figura 21, 22 e 23
Il Cinquantenario dell’Unità d’Italia e l’ideologia della Vittoria
Nel 1911 anche il primo Cinquantenario dell’unità d’Italia veniva festeggiato con emissioni che rappresentavano due personificazioni femminili: in primo piano l’Italia "aratrice" e alle sue spalle - assisa su un alto plinto - Roma elmata nell’atto di donarle lo scettro e il globo. Sulla sinistra del nominale da cinquanta lire in oro [62] compariva un aratro infiorato e sullo sfondo una nave da guerra adorna di festoni (fig. 24), sostituita da una nave mercantile sui pezzi da cinque e due lire d’argento e sui dieci centesimi in rame [63] (fig. 25).
Figura 24 e 25
Entrambe le navi evocavano spazi marini e territori lontani e si inserivano nel solco di una tradizione che aveva assegnato alla nave il ruolo di metafora dello Stato guidato da un abile timoniere, causa e generatore di LAETITIA e di FELICITAS TEMPORUM [64].
Il 29 settembre del medesimo anno iniziava lo sbarco italiano in Libia, seguito il 5 novembre dalla sua annessione all’Italia. Ad un anno di distanza, con la pace di Losanna (18 ottobre 1912), veniva riconosciuto all’Italia il possesso della Tripolitania e della Cirenaica. I successi coloniali dell’Italia, l’impegno in campo politico, diplomatico e militare e le aspettative dei successivi anni della prima guerra mondiale sembrano trovare riflesso in una modifica che interessa il tipo della quadriga ancora presente sulle monete da cinque, due ed una lira in argento. Da "veloce" la quadriga si trasforma in "briosa" [65] (fig. 26); il moto dei cavalli diviene più dinamico, abbandonato l’iniziale parallelismo nella rappresentazione degli animali, le loro zampe si inarcano e si intrecciano, le teste si orientano diversamente, lunghe criniere svolazzanti aggiungono colore all’intera scena, potenziando l’efficacia comunicativa dell’intervento immediato e salvifico della nazione italiana.
Figura 26 e 27
Sorprende come questa evoluzione stilistica, indubbiamente ispirata da reali eventi storici e dalla contemporanea propaganda politica, avesse interessato nel periodo dei maestri firmanti anche le quadrighe al galoppo dei tetradrammi e dei decadrammi siciliani, principalmente di Euainetos (fig. 27) [66], coniati nell’entusiasmo della proposta del siracusano Ermocrate di un’unione politica di tutti i Siciliani, e della successiva vittoria riportata nel 413 a.C. dalle città alleate contro gli assalitori Ateniesi [67].
Figura 28 e 29
Negli anni successivi l’attenzione e la conoscenza delle monete di età classica trapela in diverse occasioni. La prova di un nominale in rame da venticinque centesimi con testa dell’Italia turrita (fig. 28), realizzata nel 1918 [68], appare assai simile alla testa della Tyche di Smirne presente sui tetradrammi emessi dalla città nel II secolo a. C. [69] (fig. 29). Il buono da una lira, messo in circolazione nel 1921, rappresenta un’Italia matronale seduta su "cippo", che tende con la mano destra un ramo di ulivo, e poggia la sinistra sul ripiano del seggio a sostenere un globo su cui posa una vittoriola [70] (fig. 30). L’intero schema iconico riproduce l’impianto della figura di Terina, personificazione dell’omonima città, che su stateri della prima metà del IV sec. a. C. siede su un analogo seggio poggiando la sinistra sul sedile e sostenendo con la destra distesa una colomba [71] (fig. 31); su un altro conio la piccola Nike che incorona la ninfa standole alle spalle [72] (fig. 32), può anche aver fornito ispirazione per la Vittoriola che affianca l’Italia.
Figura 30, 31 e 32
Il tipo dell’Aequitas presente sul nominale da cinquanta centesimi, emesso nel 1919 e coniato fino al 1935 [73], rappresentava una donna con una grande fiaccola seduta regalmente su un carro tirato da quattro leoni (fig. 33). L’immagine riprendeva un progetto ideato per il nominale da 100 lire nel 1906 [74] avente per protagonista la dea Cybele, con corona turrita e timpano, che a sua volta ricopiava la Cybele in trono dei medaglioni dell’imperatore Adriano (fig. 34) e di Antonino Pio [75]. Il vecchio schema iconografico veniva riletto ora con riferimento all’Aequitas, la Giustizia, reinterpretando in una nuova dimensione l’iconografia dell’antica Virtus imperiale, tradizionalmente vista come figura femminile stante caratterizzata da bilancia e cornucopia [76].
Figura 33 e 34
Gli anni del fascismo e la tragica illusione dell’Impero
Al di là della specificità delle vicende italiane di età fascista, funzionali al recupero di temi e immagini peculiari delle monete emesse dall’antico Impero di Roma, il recupero di esperienze monetali di età greca e romana nelle coniazioni di Vittorio Emanuele III aveva significativamente preceduto in gran parte l’epoca fascista. Le nitide immagini di ispirazione classica rivelavano l’ampia conoscenza che il sovrano aveva della monetazione di età classica, ma anche la consapevolezza dell’efficace comunicazione che si poteva porre in atto - attraverso iconografie monetali di lunga e sperimentata tradizione - con riferimento alle ideologie del potere.
Nel 1919 Benito Mussolini, direttore dell’"Avanti", aveva fondato i Fasci di combattimento schiudendo le porte al Fascismo. Nel 1923 un aureo da 100 lire (il "Fascione" [77] ), con al diritto la testa virile di Vittorio Emanuele accompagnata dal nome e dal titolo di re d’Italia, celebrava sul rovescio il grande fascio di verghe insieme alla scritta "OTTOBRE 1922" (fig. 35), l’anno della marcia su Roma e dell’avvento del Fascismo [78].
Figura 35 e 36
I fasci, simbolo della arcaica regalità etrusca [79], in età romano-repubblicana erano divenuti emblema dell’imperium dei maggiori magistrati romani, trovando spazio anche nell’iconografia monetale del primo secolo a.C. [80]. In età moderna, il fascio aveva assunto nuovo vigore al tempo della rivoluzione francese, arricchendo il suo simbolismo. Abbinato alla libertà repubblicana si era specializzato nel senso della "fraternità" intesa come unità fra i popoli, e fra la fine del Settecento e gli inizi dell’Ottocento era divenuto attributo peculiare delle personificazioni delle Repubbliche di Piemonte, Liguria, Venezia e Roma nei brevi periodi della loro durata. Nel 1891 i lavoratori della terra, che rivendicavano i loro diritti, avevano denominato il loro movimento "Fasci Siciliani"; da quel momento in poi si era registrata una fioritura di gruppi politici che ne avevano adottato il simbolo ispirandosi nel tempo all’azione interventista - in occasione della prima guerra mondiale -, e poi - con l’avvento del fascismo - all’ideologia rivoluzionaria e nazionalista. Nel corso del Ventennio la nuova immagine del fascio fece riferimento non soltanto a un simbolo di forza e di dominio, ma rivestì anche un "profondo significato religioso" [81]: la nuova religione della patria fascista trasformò in breve tempo l’Italia intera "in una congerie di riti, miti, simboli, iconografie immediatamente riconducibili al nuovo culto littorio" [82].
In questo terzo periodo della monetazione di Vittorio Emanuele III le iconografie monetali registrano ormai non solo la presenza di simboli strettamente correlati alla Roma classica, trovando nel fascio littorio [83], nell’aquila su fascio [84] (fig. 36) o nello stendardo aquilifero adorno dello scudo sabaudo [85] i simboli più significativi, ma, al precedente predominio della figura femminile sui rovesci della moneta, si contrappone ora la presenza di quella maschile, che va progressivamente assumendo maggiore importanza.
Figura 37
La prima apparizione di una figura virile in nudità eroica coincide con la celebrazione del venticinquennale del sovrano nel 1925, un evento ricordato sul pezzo da cento lire in oro insieme a quello della vittoria nella guerra del 1915-18. Un personaggio maschile, fieramente eretto e rappresentato parzialmente di profilo, con la gamba destra piegata sulla cima di un monte e col torso vigoroso interamente visibile, pianta l’ampio vessillo svolazzante sulla VETTA D’ITALIA (così indicata dalla legenda) su cui poggia il fascio littorio, e stringe nella mano sinistra - inarcando il braccio dietro la schiena - una piccola Vittoria. L’immagine, vigorosa e dinamica, si abbina al diritto con la testa del sovrano innestata fra due fronzuti rami di quercia e circondata dalla legenda VITT•. EM•. III RE D’ITALIA [86] (fig. 37).
Figura 38, 39 e 40
L’anno dopo (1926), sul rovescio delle dieci lire in argento, compare una biga guidata dall’Italia recante sul braccio sinistro il fascio littorio [87] (fig. 38). Il carro è rappresentato nel momento in cui la corsa si arresta; i due grandi cavalli, visibili in primo piano, s’impennano ergendosi verso l’alto. In età greca la biga era stata un tipo abbinato ad una divinità giovane, ad Apollo, famosissimi gli aurei battuti da Filippo II di Macedonia, il padre di Alessandro Magno [88] (fig. 39). Anche in età romana era stata il veicolo utilizzato dalle divinità femminili [89] e - più tardi - anche quello dei Cesari della casa imperiale, secondo un criterio gerarchico che riservava la quadriga soltanto all’imperatore. La biga guidata da un’Italia con, sul braccio, l’attributo del fascio, più che essere motivata da un ruolo assunto dal figlio Umberto II, che aveva ormai raggiunto la maggiore età e nel 1925, completata la sua formazione militare, si era trasferito nel Palazzo Reale di Torino, corrispondeva alla diarchia che esisteva ormai di fatto fra il sovrano e Benito Mussolini. Il carro dell’Italia fascista appariva tirato da due vigorosi cavalli, quello interno - col capo chino verso il basso -, aveva la funzione propria del cavallo timoniere; quello esterno, e in primo piano, era la figura ideale del reggitore dello Stato. Il simbolismo della "diarchia", reinterpretata nell’ottica dell’"affiancamento" all’Italia di un nuova Nazione, in quel medesimo anno veniva riproposto sui cento franchi in oro eseguiti dalla Zecca di Roma per conto dell’Albania, priva fino a quel momento di un sistema monetario autonomo. Analoga nello schema, la biga in arrivo era guidata da un personaggio in nudità eroica, con mantello sulla spalla sinistra e frustino levato in alto [90] (fig. 40), raffigurante molto probabilmente Ahmet Leke Bej Zog, più noto come Ahmet Zogu, che proprio in quell’anno assumeva la presidenza dell’Albania, divenendone re negli anni compresi fra il 1928 e il 1939.
Figura 41 e 42
Nel 1927 è la volta della comparsa del Littore, inizialmente rappresentato sulle venti lire in argento (1927-1934). In nudità eroica, con lungo fascio e scure nella destra, saluta romanamente un’Italia seduta in trono, turrita e riccamente drappeggiata, di dimensioni gerarchicamente preminenti, con una fiaccola nella mano destra e il braccio sinistro poggiato sullo scudo (fig. 41). Lo schema è quello che fin dai tetradrammi di Lisimaco, in età ellenistica, aveva caratterizzato l’Athena in trono [91] (fig. 42), e si era mantenuto ancora in età imperiale soprattutto sulle emissioni provinciali, distinguendosi per l’atteggiamento pacifico e rilassato e l’attributo della fiaccola dall’immagine di ROMA AETERNA, rappresentata nella tarda età imperiale con in mano il palladion e il lungo scettro [92].
Nel 1928 la "mistica" del regime fascista raggiunge il suo culmine: in occasione del primo decennale della guerra del 1915-1918, viene coniato il pezzo da venti lire in oro con semibusto del re in uniforme e con testa cinta di elmo, con al rovescio la scritta "Meglio vivere un giorno da leone che cento anni da pecora", incisa sulla lama della scure decorata con testa leonina ed associata al fascio littorio [93] (fig. 43).
Nel 1931, tuttavia, la figura muliebre dell’Italia torna ad essere rappresentata sul maggiore nominale emesso in oro, ormai drasticamente ridotto di peso in seguito alla pesante inflazione scatenatasi nel dopoguerra: ritta su una prora adorna del fascio littorio, tiene in mano la fiaccola e il ramo di ulivo [94] (fig. 44, rovescio). La figura appare ammantata e rivestita di un ricco panneggio, ma coi seni bassi ed "appesantita" dagli anni. La sua immagine fa da pendant al semibusto del sovrano in alta uniforme militare e collare dell’Annunziata (fig. 44, dritto), che registra anch’egli l’inesorabile trascorrere del tempo.
Figura 43 e 44
Figura 45 e 46
Contemporaneamente - nell’ideale affiancarsi di due generazioni - sul pezzo da cinquanta lire in oro viene assunta la figura del giovane Littore col fascio poggiato sulla spalla [95] (fig. 45), un soggetto che, in coincidenza con la celebrazione dell’Impero, sarà "promosso" ad occupare il rovescio delle cento lire in oro [96] (fig. 46). Entrambi i personaggi sono accompagnati dalla legenda ITALIA, che nel passato aveva svolto la funzione identificativa del personaggio femminile rappresentato sul rovescio della moneta, e che segna ora - con l’adozione dei nuovi soggetti - la progressiva "mascolinizzazione" dei temi, e la contemporanea diminuzione del prestigio della figura femminile in cui era stata identificata l’Italia [97]. La scelta appare ormai in antitesi con quella operata dal sovrano nel suo secondo periodo di coniazione: scelta che era stata innovativa e coraggiosa, e di sicuro significativa per il prestigio che indirettamente segnalava potesse essere associato ad una donna.
Il 9 Maggio del 1936 il Gran Consiglio del fascismo e il consiglio dei Ministri avevano proclamato la sovranità italiana sull’Etiopia e avevano fondato l’Impero. Il re diventava re d’Italia e d’Albania e imperatore d’Etiopia: nasceva così la nuova monetazione imperiale [98]. Al Littore presente al rovescio delle cento lire in oro si affiancava ora - sul pezzo da cinquanta lire -, l’immagine dell’insegna imperiale romana con aquila e scudo sabaudo. L’Italia assisa su quadriga di cavalli al passo di parata, con fascio littorio e Vittoriola in mano, era tuttavia ancora presente sul rovescio dell’ampio tondello delle venti lire in argento, coniati fino agli inizi del 1941 (fig. 47). Lo schema era quello tipico che sulle monete romane aveva celebrato il triumphus imperiale (fig. 48, Probus, 276-282 d.C.): al diritto della moneta la "nobile" testa, nuda e dal cranio quasi rasato di Vittorio Emanuele III, era circondata dalla legenda che ora lo designava re ed imperatore [99].
Figura 47 e 48
Ben diversa dalla matronale e quasi "attempata" Italia su prora che era comparsa sulle cento lire in oro del 1931 è ora quella che viene raffigurata sulle dieci lire in argento, mentre avanza su una prora di nave decorata con lo scudo sabaudo. Miracolosamente ringiovanita, bella e piena di vigore, lascia intravedere un corpo solido, fasciato da un drappeggio che ne esalta le forme, mentre sorregge con la destra un lungo fascio con scure e con la sinistra la piccola Vittoria [100] (fig. 49).
Figura 49
Esalta la mistica del nuovo ruolo che il fascismo riserva alla donna, emblematicamente impersonata dall’Italia, l’immagine presente sul pezzo da cinque lire in argento. L’Italia, generosa madre di figli, rappresentata come l’antica Fecunditas, siede ora frontalmente, stringendosi ai seni due pargoli ed affiancata da due bimbi anch’essi in tenera età [101] (fig. 50).
E’ questa la celebrazione di una Nazione Imperiale che fonda il suo futuro e la sua gloria sulla generazione di nuovi figli e sulla feconda generosità delle Madri.
Pur potendo beneficiare di una tradizione romana che aveva fatto della Mater la protagonista della discendenza imperiale, frammentandone il ruolo in innumerevoli affinità semantiche correlate agli aspetti giuridici, militari, religiosi, etici ed ideologici dell’imperium [102], nella moneta di Vittorio Emanuele III imperatore sembra ora esaltata esclusivamente la virtù generativa della donna. L’Italia feconda, dal corpo robusto e dai grossi seni, è immagine più simile a quella di una "popolana" che alla figura regale adottata nei decenni precedenti: affiancata da due bimbi nudi e dalle carni piene, ella ne tiene in braccio altri due allattandone uno con la mammella sinistra. Costantino il Grande che aveva anch’egli adottato per la moglie Fausta, negli anni 324-326, il tipo della figura femminile seduta con in braccio un infante (secondo l’antico schema dell’Isis lactans adottato in seguito anche per Maria Madre del Cristo), aveva posto la donna in trono, ne aveva adornato il capo con il nimbo, e i suoi piedi poggiavano su un grande e inghirlandato sgabello a simboleggiare un dominio universale. Ai suoi lati le figure di Salus e Spes [103], riprese alternativamente dalle legende che circondavano il tipo nella forma di Salus o Spes Rei Publicae, avevano suggellato l’ideologia salvifica sottesa all’immagine materna [104] (fig. 51).
Figura 50, 51 e 52
Conclude la carrellata di figure femminili inaugurate nel 1936 la testa di profilo di un’Italia che "guarda al futuro", con ricche chiome ondulate trattenute dal fascio littorio adorno dello scudo sabaudo [105] (fig. 52), presente sulla frazione da venti centesimi in nichelio, il nominale che pressoché ininterrottamente, dal 1907 al 1935, aveva associato ad un’Italia "dea" dell’agricoltura, la giovane ed aerea figura della Libertà in volo.
Ad eccezione degli ori con "Vetta d’Italia" e di quelli con i due Littori e degli argenti con il Littore e l’Italia in trono, il protagonista maschile assoluto di tutta la monetazione di Vittorio Emanuele III rimane comunque il re, un re che nel 1936 entra in pieno nei panni dell’imperatore e come l’antico imperator romano scrive sulla sua moneta [106] soltanto IMP, abbreviandolo quasi sempre, e inframmezzando - sia il proprio nome che i titoli di comando - con i globetti distintivi delle legende imperiali romane: a sinistra VITT• EM• III, a destra RE • E• IMP•.
Il fenomeno si era palesato a partire dalle emissioni che festeggiavano il venticinquennale del Regno e, in seguito, era stato agevolato dalle dimensioni ridotte dei tondelli, conseguente alla crisi economica manifestatasi agli inizi degli anni ’30 [107]. Progressivamente l’assimilazione formale di Vittorio Emanuele con l’imperatore romano era diventata completa. Lo rivelano gli schemi e lo stile dei diversi ritratti presenti al diritto. Sulle emissioni del I Periodo la giovane testa del sovrano, tagliata alla radice del collo, appariva ingentilita da baffi arricciati alle estremità, secondo la moda del tempo. Nel 1908, "in un momento in cui l’Italia intendeva affermare di fronte alle altre nazioni europee il proprio ruolo di potenza coloniale e mediterranea" [108], la sostituisce un busto in uniforme, "il cui scarno profilo viene come sopraffatto dalla massa compatta dell’elmetto militare" [109], che si mantiene a lungo invariato pur mostrando progressivamente l’invecchiamento dei tratti del volto. E’ tuttavia dopo la proclamazione dell’Impero che la fisionomia del sovrano, inizialmente appesantita dagli anni, subisce un "miracoloso" ringiovanimento. Gote e gola si tonificano di nuovo vigore, il capo nudo del re, appena coperto da corti capelli che ne esaltano il contorno, è sostenuto da un lungo collo, che evidenzia l’ampia fascia muscolare che l’attraversa e si prolunga allargandosi verso il basso, delimitato da una linea ondulata desinente sul davanti in uno stretto angolo acuto, che conferisce forza virile e nobiltà al volto del sovrano (fig. 53).
Figura 53 e 54
I modelli erano quelli dei ritratti già adottati da Roma nella prima età imperiale [110] (vedi fig. 54 col ritratto dell’imperatore Galba).
Il 10 giugno 1940 l’Italia entrava in guerra! Il Corpus Nummorum Italicorum, che aveva accompagnato il lungo regno di Vittorio Emanuele III, era stato pubblicato fino al XIX volume, il XX fu terminato e stampato nel 1943 in pochissime copie, a causa della guerra. Parallelamente si compiva per sempre l’esperienza del re emittente della propria moneta: forse non a caso una delle ultime iconografie, adottate per le monete da cinquanta centesimi in nichelio ed acmonital, rappresentava un’aquila di profilo sul fascio, le ali erette e il capo rivolto "inutilmente" indietro [111] (fig. 55).
Figura 55
Note