logo bollettino di numismatica dello stato

Collezionismo numismatico e meridionalismo: la raccolta di Giustino Fortunato

di Renata Cantilena

“La dura esperienza della vita molte cose ci ha insegnato. Ci ha insegnato, soprattutto, a conoscere un po’ meglio noi stessi, nella triste verità dei secoli andati (perché, se non impariamo a dir la verità intorno a’ morti, quando vorremo praticarla con i vivi?), nella reale difficile condizione dell’oggi; e quindi, ad essere meno orgogliosi e meno fantastici, ad amar la patria, non per le vantate glorie e le fallaci speranze, ma per i suoi molti dolori del passato, le gravi e tante sue incertezze presenti. Che mai varrebbero la storia e la geografia, se, come scriveva cento e più anni addietro il Galanti, uno de’ più lucidi intelletti della nostra Rinascenza, non dovesse principalmente servire alla politica?” (G. Fortunato).

Quando Stefano De Caro e Silvana Balbi mi hanno invitato a presentare un intervento sul collezionismo colto negli anni di Vittorio Emanuele III, mi è tornato alla mente un vecchio progetto di studio mai portato a compimento: una ricerca sugli interessi numismatici ed archeologici di un grande meridionalista, il senatore Giustino Fortunato, la cui raccolta di monete antiche dal 1932 è conservata al Museo Archeologico Nazionale di Napoli (fig. 1).

Figura 1 - Il senatore Giustino Fortunato nel suo studio in Napoli, via Vittoria Colonna

Figura 1 - Il senatore Giustino Fortunato nel suo studio in Napoli, via Vittoria Colonna.

Su Fortunato - celebre storico, politico, studioso di problemi economici e sociali, nato a Rionero in Vulture in Basilicata nel 1848 e morto a Napoli nel 1932 - sono stati scritti innumerevoli saggi, più volte sono state commentate le sue opere a stampa e pubblicate parti della raccolta di appunti manoscritti e del ricco epistolario intrattenuto con uomini politici e di cultura, come Croce, Salvemini, Villari [1]. Assai meno noto però è l’atteggiamento nei riguardi della numismatica e dell’archeologia, un aspetto per la verità marginale della sua composita personalità, ma per più versi esemplificativo della maniera di rapportarsi alla ricerca storica nel trentennio post-unitario e nei primi anni del Novecento, un’epoca ancora permeata dall’onda lunga dei princìpi del positivismo. Alcuni anni fa, in un documentato lavoro sui cento anni di attività della Rivista Italiana di Numismatica, Giovanni Gorini ha ben restituito i moventi del collezionismo e degli studi di numismatica a cavallo tra Ottocento e Novecento [2]; non mi soffermo, quindi, sulla questione, se non per osservare che la tensione storica del Fortunato trova linfa vitale nell’humus culturale di quegli anni in cui si puntava a ricostruire una storia nazionale anche attraverso la promozione di studi di storia locale. Sul piano organizzativo, nel fondare le istituzioni culturali dello Stato unitario, si procedeva alla creazione di strutture centralizzate come gli Archivi di Stato e al tempo stesso si promuoveva la costituzione di organismi, come le Deputazioni e Società di Storia patria, per la raccolta e la pubblicazione di testimonianze documentali su singoli episodi di storie locali, reputate fondamentali per la tessitura di una storia nazionale. Nell’ambito delle Società di Storia Patria si ritrovano, tra fondatori e soci, numerosi studiosi di numismatica e collezionisti di monete. In quel periodo venivano riorganizzate le istituzioni scolastiche ed universitarie, erano promosse, con il sostegno pubblico, accademie e società per lo studio delle antichità e dell’archeologia, e per la prima volta, nell’ambito del Ministero dell’Istruzione pubblica, grazie all’intervento del ministro Ruggero Bonghi, veniva istituita la Direzione generale per gli scavi e i monumenti, per la tutela del patrimonio artistico, archeologico e monumentale (1875).
Lo studio del passato doveva contribuire a consolidare l’unità morale degli italiani. Le monete, al pari di altri documenti, erano considerate strumenti essenziali di indagine per la ricerca storica. In Italia, infatti, in quei tempi, e ancora per i primi decenni del Novecento, era radicato il legame tra il collezionismo e gli studi finalizzati a valorizzare le specificità locali nel patrimonio culturale nazionale.
Al collezionismo numismatico, quindi, veniva attribuita la funzione di fondamentale apporto per evitare la dispersione dei reperti monetali. E non si trattava di un’idea propugnata solo dai protagonisti di uno specifico settore commerciale che in Italia, tra gli ultimi decenni dell’Ottocento e i primi del Novecento, ebbe un notevole slancio. Senza dubbio a tale impulso contribuì, e non poco, la passione collezionistica di Vittorio Emanuele III, che fu esempio e stimolo per altri. Giulio Bernardi, Presidente della Società dei Numismatici Professionisti Italiani, ricorda che, volendo solo esaminare i più importanti cataloghi e listini di asta dell’ultimo ventennio dell’Ottocento, si ha la percezione di una vendita in Italia di oltre 20.000 lotti di monete all’anno, per lo più antiche e medievali, con un movimento complessivo di mezzo milione di monete per ciascun anno [3]. Ma alle aste in quei tempi partecipavano, per acquistare le serie migliori, anche i conservatori di rinomati Istituti pubblici, come Luigi Adriano Milani, Direttore del Museo Archeologico di Firenze, o Lorenzina Cesano, Conservatore del medagliere del Museo Nazionale Romano. Che il collezionismo numismatico, privato o statale, fosse azione meritevole era un concetto radicato tra numismatici di professione che si occupavano della vendita di monete e singoli privati appassionati di numismatica antica, condiviso anche da illuminati archeologi "militanti".
In proposito, colpisce l’episodio riguardo a Paolo Orsi ricordato da Gian Angelo Sozzi, Presidente della Società Numismatica Italiana, nell’incontro del maggio dello scorso anno a Milano sui cento anni del Corpus [4]. Nel discorso pronunciato nel 1931, in qualità di Presidente dell’Istituto Italiano di Numismatica, per celebrare i cinquanta anni di attività numismatica di Vittorio Emanuele III, l’archeologo di Rovereto raccontava che nel 1906, in occasione di una visita del re al Museo di Siracusa, lo aveva personalmente sollecitato a collezionare monete siceliote e italiote, oltre che monete medievali, aggiungendo che allora i tempi erano ancora propizi. Sappiamo che il re, da diversi anni prima (1889), aveva deciso di raccogliere solo monete italiane, tralasciando quelle antiche [5]. L’invito di Paolo Orsi al sovrano era finalizzato ad evitare la dispersione delle monete delle città greche del Mezzogiorno e il suo auspicio ben si comprende se consideriamo che, per salvaguardare i reperti archeologici, soltanto tre anni dopo fu approvata la famosa legge 364 (20 giugno 1909). La legge sancisce il principio innovatore (poi recepito dalla 1089 del 1939) per cui le cose d’arte o di antichità di singolare pregio (e tra queste le cose di interesse numismatico), pur se oggetto di proprietà privata, vanno tutelate perché appartengono a tutti, dal momento che tutti, chi più chi meno, hanno contribuito a darne forma, poiché sono l’espressione della vita intellettuale della società e riassumono i più vari elementi dell’ambiente sociale [6].
Questo il clima culturale degli anni di Giustino Fortunato. Egli, per interpretare la realtà della vita italiana dei suoi tempi, dedicò alle vicende storiche della Basilicata anni di studio e la stesura di analitici saggi, tra cui i più significativi furono ripubblicati nella Collezione di Studi Meridionali, grazie alle premure di Ugo Zanotti Bianco, allora curatore della collana, al quale lo legavano una profonda stima e una intensa amicizia [7]. Fonte per le sue pazienti ricerche, il cui fine era la storia delle popolazioni, più che dei monumenti, furono soprattutto documenti inediti e iscrizioni. Non sorprende, quindi, che – come altri suoi contemporanei appassionati di storia locale – Fortunato conservasse con cura i reperti archeologici e le monete antiche provenienti dalle sue terre, acquistati o ricevuti in dono.
La descrizione più toccante del pensiero, dell’impegno politico e della personalità del Fortunato - dagli anni della speranza di una rinascita del Meridione a quelli dello sconforto seguito all’avvento del fascismo, che lui amaramente definiva l’Era messicana – è nel saggio introduttivo di Zanotti Bianco alle Pagine storiche [8], testo dal quale trapela il suo grande affetto per questo “uomo della tristezza meridionale”, “rispettoso delle tradizioni, della forma, della dignità degli esseri, del buon nome della Nazione”. Il Carteggio Fortunato - Zanotti-Bianco [9] ha carattere privato, ma proprio per questo offre aspetti più intimi e autentici dell’impegno sul piano culturale di due grandi uomini a cui fu cara la civiltà del Meridione, entrambi molto attivi nel promuovere le attività dell’Associazione Nazionale per gli Interessi del Mezzogiorno d’Italia, di cui Fortunato fu socio fondatore e presidente dal 1918 fino alla morte (1932). Nella corrispondenza non mancano accenni a questioni archeologiche: ad esempio, in una lettera Fortunato esprime rimpianto per il fatto che Orsi non sia voluto rimanere alla direzione del Museo di Napoli. Riconoscendo la tempra intellettuale dell’archeologo, condivide l’idea di avviare le esplorazioni archeologiche a Sibari, pure se scettico dei risultati (“Cominciate da Sibari: Dio voglia che gli scavi smentiscono me, prima che io chiuda gli occhi alla luce!”) e propone, inoltre, a Zanotti di condurre Orsi in ricognizione sul Vulture (lettera del 26 maggio 1922). Assai eloquente, poi, il sarcasmo su Edoardo Galli, nominato durante il regime fascista Soprintendente per le Antichità e l’Arte del Bruzio e della Lucania: “Mio carissimo, ricevo una lettera, oh quanto enfatica, a firma di Edoardo Galli… che saluta in me, Ispettore Onorario della nuova (!?) Soprintendenza bruzio-lucana ecc., e chiede l’ ‘autorevole’ mio patrocinio (?!) ecc. Chi è? Quale cotesta novità? Che roba! Rispondo secco e duro” (Napoli, 29 giugno 1925).
In effetti Fortunato era stato fin da giovanissimo, dagli anni Settanta dell’Ottocento, Ispettore degli Scavi. In tale ruolo aveva intrattenuto relazioni epistolari, per notizie sui ritrovamenti archeologici nel Vulture, con Giuseppe Fiorelli, allora Direttore Generale dei Musei e degli Scavi. Proprio su Notizie degli Scavi vi è l’unica attestazione, finora rintracciata, sulla provenienza delle monete della raccolta Fortunato [10]. In un rapporto del 15 ottobre 1877, Fiorelli scrive “Rionero in Vulture. Nelle vicinanze di questo comune, su di un poggio ad oriente, in contrada Piesco S. Francesco, esistono molte mura sotterranee, le quali per la loro estensione e pel gran numero di antichi oggetti che vi si scoprono nelle coltivazioni agricole, danno sufficiente motivo a credere, che ivi sia stata un’agglomerazione di caseggiati. L’Ispettore degli scavi sig. Giustino Fortunato scriveva nel passato settembre, avervi raccolto durante l’anno circa trecento monete, delle quali molte romane, molte medioevali ed alcune angioine. Non mancano i tipi urbici fra cui si distinguono le monete di Napoli, di Taranto, di Arpi, di Venosa, di Velia, di Turio” [11]. E sempre su Notizie degli scavi Fortunato pubblicava tre iscrizioni latine dalle vicinanze di Venosa, una da Monticchio (Atella), una da Morbano (Venosa), l’altra da Serra a oriente di Atella, dalla stessa località da cui proviene un sarcofago conservato al Museo Archeologico Nazionale di Napoli [12]. Non sono riuscita ancora a individuare dove siano finiti i reperti archeologici del Fortunato, che nel codicillo al suo testamento olografo del 12 dicembre 1921 sono citati come segue: “La piccola collezione di terracotte antiche e di antichi oggetti, provenienti da scavi d’intorno al Vulture, da me acquistati o avuti in regalo, do – se io non l’avrò già data – agli amici cav. Vittorio De Cicco e cav. Sergio De Pilato, o per mezzo loro, al nascente Museo Provinciale di Potenza. Insieme con essa, i due be’ vasi istoriati, trovati a Barile, che sono nella stanza superiore della torretta, a Rionero, e le antiche palle di cannone, rinvenute presso Atella, che sono sotto le consoles della stanza delle incisioni” [13]. Nel medesimo codicillo, redatto a Napoli nel 1922, è citata la raccolta di monete: “La piccola collezione di monete greche d’argento – insieme con la nota contrastata moneta aurea di Poseidonia – do, se io stesso non l’avrò già data, all’amico prof. Vittorio Spinazzola, perché la serbi nel Museo di Napoli, del quale egli è Sopraintendente”.
La collezione numismatica, donata al Museo Archeologico Nazionale di Napoli, è l’ultimo significativo lascito privato immesso nel medagliere ed è ancora oggi inedita. L’insieme comprende oltre 900 monete suddivise in 159 monete greche (di zecche magno-greche, siceliote, greche), 139 romano-repubblicane, 184 romano-imperiali, 26 tra bizantine e longobarde, 224 medioevali e moderne. Le rimanenti, di varia epoca, fino alle moderne, sono in pessimo stato di conservazione e non sono facilmente classificabili [14]. Il nucleo, quindi, è piccola cosa riguardo alle circa 100.000 monete della collezione reale. Ma per Vittorio Emanuele la numismatica fu “la più grande passione di una vita” [15], mentre l’impegno in cui un personaggio della tempra di Fortunato profuse tutte le energie fu di ben altra portata rispetto al raccogliere monete antiche!
Le monete della sua raccolta, con poche eccezioni, appartengono per la stragrande maggioranza a specie attestate in Lucania ed offrono, quindi, una interessante panoramica delle serie in circolazione nel Vulture, nelle diverse fasi storiche. Tra i pezzi più discussi, come indicava nel testamento lo stesso Fortunato, vi è uno statere di Poseidonia in oro, il quale - se fosse autentico - sarebbe di straordinaria importanza. Questa moneta introduce nel discorso un protagonista della scena numismatica napoletana del tempo, al quale il senatore si rivolse per verificare la controversa autenticità dell’eccezionale oro: Arturo Sambon.
Il Sambon, studioso di numismatica meridionale antica e moderna, autore di numerosi saggi e del famoso volume sulle coniazioni dell’Italia antica [16], è l’erede di una nota e accreditata famiglia di numismatici (fig. 2) [17].

Figura 2 - Arthur e Jules Sambon al Congresso Internazionale di Archeologia (Roma,1912).

Figura 2 - Arthur e Jules Sambon al Congresso Internazionale di Archeologia (Roma,1912).

Negli anni giovanili del Fortunato, infatti, era in piena attività a Napoli Jules Sambon, collezionista e serio commerciante di monete [18]. Ardente garibaldino, figlio del francese Louis Sambon che proprio a Napoli aveva pubblicato le sue Recherches [19], è noto agli studiosi di numismatica medievale soprattutto per il Repertorio [20]. L’opera alla sua uscita fu molto elogiata per la “scientificità” dal Papadopoli, che invece non aveva risparmiato critiche al criterio dell’ordinamento su base geografica con cui in quegli anni veniva compilato il Corpus Nummorum Italicorum [21]. La raccolta del Sambon, il cui nucleo originario fu la collezione Spinelli, era composta sostanzialmente di monete medievali dell’Italia Meridionale e in parte fu acquistata proprio da Vittorio Emanuele III [22]. Il catalogo di vendita, compilato dal figlio Arthur Sambon [23], in mancanza di altra bibliografia prima dell’edizione dei volumi del Corpus, a lungo è stato il punto di riferimento sulla produzione delle zecche meridionali.
Arthur Sambon è il più tipico rappresentante del collezionismo numismatico colto dei primi del Novecento. Proveniva da studi di archeologia e di paleografia; suoi docenti presso l’Università di Napoli erano stati Giulio De Petra, Direttore del Museo di Napoli dal 1900, e Nunzio Faraglia, membro della Società Storia Patria e autore anche di qualche scritto di carattere numismatico. Egli possedeva, come già il padre, una buona raccolta di monete dell’Italia meridionale e della Sicilia e disponeva di una solida preparazione, basata su accurati studi condotti sui documenti dell’Archivio di Stato di Napoli, coniugata ad una vasta conoscenza pratica delle monete derivatagli anche dalla collaborazione con la casa d’asta di antichità Canessa, di cui fu corrispondente a Parigi. A ragione, il Grierson ha osservato come al trasferimento del Sambon a Parigi sia da imputare la causa del declino degli studi di numismatica medioevale a Napoli. Declino a cui non riuscì a porre rimedio la fondazione nel 1913 del Circolo Numismatico Napoletano, di cui fu artefice Memmo Cagiati. E solo molti anni dopo, nella seconda metà del Novecento, assumerà respiro storico e internazionale lo studio della produzione monetale medioevale delle zecche meridionali, grazie soprattutto all’impulso dato alle ricerche dallo stesso Grierson. D’altra parte, anche altrove in Italia, a partire dai primi anni del Novecento, diventava sempre più netta la separazione tra collezionisti privati di monete e studiosi in grado di utilizzare la numismatica come campo di indagine storica.
A. Sambon, interpellato dal Fortunato in merito all’oro di Poseidonia, ritenne lo statere un unicum autentico. Dopo aver attestato con la perizia di un orefice la qualità del metallo, verificata la tecnica di esecuzione per coniazione e confortato nel suo giudizio da un archeologo come F. von Duhn e da un fine numismatico come B. V. Head (il quale però aveva visto il calco e non l’originale), volle darne immediata notizia nell’Archivio Storico per le Provincie Napoletane e nella Rivista Italiana di Numismatica [24].
La moneta presenta i tipi e le iscrizioni degli stateri in argento del gruppo B della classificazione del Kraay, dallo studioso inglese datato circa 440-420 a.C. [25]. In particolare, l’oro trova i confronti più stringenti con gli stateri SNG Oxford, 826 (fig. 3) o SNG F. M. Leake and Genaral Collection, 549.

Figura 3 - Statere in oro di Poseidonia (falso, collezione G. Fortunato) e statere in argento di Poseidonia (Oxford, Ashmolean Museum).

Figura 3 - Statere in oro di Poseidonia (falso, collezione G. Fortunato) e statere in argento di Poseidonia (Oxford, Ashmolean Museum).

Dai loro conii si differenzia, tuttavia, per alcuni particolari: l’occhio del toro, eccessivamente grande, o il lembo di clamide pendente non visibile dietro la figura di Poseidon, elemento che caratterizza altri conii utilizzati per l’argento (per esempio, SNG Copenhagen 1285 o SNG ANS 663).
Il pezzo, in realtà assai problematico, si dice provenga da Lavello, l’antica Forentum, l’importante sito archeologico posizionato nel punto di incontro tra l’asse Ofanto-Sele e la valle del Bradano.
L’elemento che impone di sospettare l’autenticità del pezzo non è il luogo del ritrovamento, in quanto a Lavello non mancano rinvenimenti riferibili alla possibile datazione dello statere d’oro: basti pensare, ad esempio, alle strutture monumentali ubicate sulla collina di Gravetta (zona G) interpretate come manifestazione del potere politico-religioso di una gens ai vertici della comunità [26]. Inoltre, il ritrovamento, durante le esplorazioni degli anni Ottanta del Novecento, di una tomba dell’ultimo venticinquennio del V secolo a.C. (T. 599) dalle caratteristiche eccezionali (ceramica attica, vasellame d’argento) [27] ha indotto a ritenere che sul rilievo ora occupato dal cimitero vi fosse l’area sepolcrale di questa gens dell’aristocrazia locale [28].
L’intera area, peraltro, fu oggetto di ritrovamenti fortuiti in occasione di lavori agricoli e degli stravolgimenti realizzati a partire dalla metà dell’Ottocento per la costruzione del cimitero. Inoltre, negli anni a cui risalgono le prime notizie circa lo statere aureo, a Lavello sono segnalati rinvenimenti archeologici: tombe lungo l’arteria principale del paese e frammenti di tegole e di vasi attestanti l’esistenza di un abitato, in località poco distante dal cimitero [29].
Né può essere addotta come prova di non autenticità dell’oro di Poseidonia la presunta assenza di monetazione aurea nel V secolo a.C. in Magna Grecia; infatti, in anni recenti K. Rutter ha giudicato non sospetti sia due esemplari divisionali di Cuma, sia uno della stessa Poseidonia [30]. Piuttosto, ciò che desta fondati motivi di diffidenza è il suo peso, corrispondente ad un didrammo euboico-attico, valore elevato non attestato in Occidente per le coniazioni greche dell’epoca e, soprattutto, la resa stilistica e la qualità dell’esecuzione [31].
Comunque, accantonando la questione dello statere aureo di Poseidonia, e ritornando all’atteggiamento nei riguardi del collezionismo del Fortunato, mi pare importante sottolineare che, nonostante egli fosse un fiero avversario del regime fascista (“Il 28 ottobre 1922 cadeva l’ultima foglia dell’albero delle mie illusioni, ed io mi destavo come dall’aver, sin là, perseguito un sogno”), la contingente situazione politica non minò mai il suo rispetto per lo Stato e le sue istituzioni culturali. Ancora in vita, infatti, dispose che la sua collezione numismatica, insieme alla ricca biblioteca, gli atti di archivio e i fitti carteggi con le più eminenti personalità scientifiche e politiche, divenissero patrimonio pubblico. Il lascito del Fortunato, fatte le debite proporzioni, fu dettato dalle medesime motivazioni che indussero Vittorio Emanuele III a donare al popolo italiano la sua immane raccolta nel 1946, alla vigilia dell’esilio. Questo aspetto contraddistingue il comportamento di molti cultori di numismatica della prima metà del Novecento.
Per restare in ambito meridionale citerò, ad esempio, Paolo Emilio Bilotti, contemporaneo del senatore Fortunato, ma di minore statura del grande meridionalista. Il Bilotti, originario di Villafiorita (Cosenza), fu direttore dell’Archivio provinciale dello Stato di Salerno dal 1891 al 1927, fondatore della Società salernitana di Storia patria, autore di saggi di storia risorgimentale, promotore di associazioni culturali e umanitarie [32]. Gli eredi vollero lasciare in deposito allo Stato, affinché venisse schedata e studiata, la sua collezione composta di circa 11.000 monete di epoca greca, romana, medievale e moderna, insieme con il fondo bibliografico e documentario. La raccolta numismatica del Bilotti è custodita all’Archivio di Stato di Salerno e, come quella del Fortunato, è ancora inedita, pur raccogliendo pezzi di notevole interesse provenienti dalle regioni meridionali. Anche nella raccolta del Bilotti, come in quella del Fortunato, non mancano contraffazioni, ad attestare il rischio di incorrere in falsi, che da sempre accompagna la pratica del collezionare monete. A titolo dimostrativo, si presenta un pezzo in bronzo (fig. 4) pertinente ad una serie di falsificazioni presenti anche in varie raccolte numismatiche dell’Italia settentrionale [33], che è assai simile ad un altro con gli stessi tipi da Altavilla Irpina (Avellino), la cui riproduzione aveva sottoposto alla mia attenzione il compianto archeologo Werner Johannowky.

Figura 4 - Falsa moneta in bronzo (Archivio di Stato di Salerno, collezione Bilotti).

Figura 4 - Falsa moneta in bronzo (Archivio di Stato di Salerno, collezione Bilotti).

Gli esemplari del “Monetiere” Bilotti, nell’ambito dei progetti di digitalizzazione delle collezioni numismatiche degli Archivi di Stato promosso dalla Direzione generale per le antichità, dovrebbero essere ora finalmente studiati e classificati [34]. E' mio personale auspicio che, come è in programma per la collezione Bilotti, anche la raccolta Fortunato possa essere resa disponibile agli studiosi grazie all’inserimento in rete tramite il Portale Numismatico dello Stato. Sarebbe davvero un atto dovuto nei riguardi dell’impegno intellettuale di una personalità come Giustino Fortunato. Egli, nell’auspicare un moderno Stato unitario, ritenne indispensabile approfondire lo studio delle specifiche culture regionali del Mezzogiorno ed operò in tal senso, nella convinzione che non è possibile avere coscienza della realtà del presente senza la conoscenza del passato.

Note

[1] Nel sito dell’Associazione Nazionale per gli Interessi del Mezzogiorno d’Italia (ANIMI) (www.animi.it) è indicata la vasta bibliografia degli scritti di e su Giustino Fortunato. Un recente profilo sul suo percorso intellettuale e politico è in Griffo 2010. Le opere di G. Fortunato, mentre fu in vita, furono pubblicate in edizioni fuori commercio, riservate a pochi lettori, fatta eccezione della raccolta dei principali discorsi politici, che egli fece ristampare con il titolo Il Mezzogiorno e lo Stato italiano (Bari 1911), per destinarne il ricavato all’ANIMI, di cui fu socio fondatore e presidente onorario dal 1918 al 1932.
[2] Gorini 1988, pp. XIX-XXIX.
[4] Sozzi 2010, pp. 13-14.
[5] Travaini 2010, p. 46.
[6] Tale affermazione è contenuta nella relazione alla legge fatta da Giacomo Rosadi in Parlamento: Tamiozzo 2004, p. 384.
[7] Tra gli scritti del Fortunato riguardanti documentazioni storiche-archeologiche della regione natìa, ricorderemo, ad esempio: Avigliano nei secoli XII e XIII; Due iscrizioni del secolo XII; Raccolta epigrafica; Riccardo da Venosa e il suo tempo; Durazzeschi ad Atella; Atella feudale; i sei volumi di Notizie storiche sulla Valle di Vitalba: I feudi e i casali di Vitalba nei secoli XII e XIII; Santa Maria di Vitalba; Maria di Perno; Rionero medioevale; Il castello di Lagopesole; La Badia di Monticchio.
[8] Fortunato 1951, pp. 5-63.
[9] Pontieri 1972.
[10] Devo la segnalazione al sig. Roberto Pallottino della Biblioteca G. Fortunato a Palazzo Fortunato in Rionero in Vulture.
[11] NSc 1877, p. 225.
[12] NSc 1916, pp. 184-185.
[13] Calice 2008, pp. 99-100. Ringrazio per la collaborazione la dott.ssa Maria Cristina Caricati, Direttore del Museo Provinciale di Potenza da me interpellata, la quale, dopo ricerche di archivio, mi ha comunicato di non avere elementi per rintracciare questi reperti tra le raccolte del museo.
[14] La schedatura degli esemplari è stata curata, negli anni passati, da Teresa Giove, responsabile delle raccolte monetali del Museo Archeologico Nazionale di Napoli, che ringrazio per avermi fornito indicazioni sull’entità della raccolta.
[15] Travaini 2005.
[16] A. Sambon 1903.
[17] Dettagliate notizie sulle attività e sugli scritti di A. Sambon sono in Grierson 1991, pp. 48-52, contributo poi ripreso in Grierson 1998, pp. 476-518.
[18] La sua "Impresa di vendite in Italia" fu istituita nel 1878 a Napoli con sede in via Gennaro Serra 24, e in seguito con altre tre sedi: Milano, Corso Vittorio Emanuele 37; Firenze, via Martelli 4; Roma, via Condotti 44.
[19] L. Sambon 1870.
[20] J. Sambon 1912.
[21] Saccocci 2010, pp. 98-99.
[22] Catalli 2010, p. 29.
[23] A. Sambon 1897.
[24] A. Sambon 1893, pp. 477-481.
[25] Kraay 1967, pp. 126-133.
[26] Per la storia dei rinvenimenti archeologici, Forentum I, pp. 27-35; sulle esplorazioni condotte a partire dal 1985 in questa zona, Forentum II, pp. 17-26.
[27] Forentum II, pp. 35-38.
[28] Forentum I, p. 31.
[29] NSc 1889, pp. 137-138.
[30] Rutter 1979, p. 123, nn. 4 e 5 e Rutter 1997, p. 58. La frazione in oro di Poseidonia, conservata al Cabinet des Medailles della Bibliothèque Nationale di Parigi, pesa g. 1,36 ed è datata circa 445-420 a.C. Su di essa seri dubbi di autenticità furono espressi da C. Kraay: cfr. Kraay 1969, p. 41. Risale, inoltre, alla metà del V secolo a.C. un’emissione di dioboli in oro di Messana, nota da 3 esemplari, tratti da una stessa coppia di conii, considerati autentici da M. Caccamo Caltabiano (Caccamo Caltabiano 1993, pp. 73-75 e p. 242, serie VII, n. 321).
[31] In ogni caso per fugare ogni residuo dubbio, si pensava di sottoporre il pezzo ad analisi non distruttive per valutare la composizione del metallo; a tal fine, grazie a Salvatore Garraffo, sono stati presi i primi contatti con l’Istituto per i Materiali Nanostrutturati del CNR.
[32] Su Paolo Emilio Bilotti, Gallo 2000.
[33] Devo l’informazione alle colleghe Rossella Pera e Emanuela Ercolani Cocchi.
[34] Pennestrì 2008, pp. 255-268 e Pennestrì 2010, pp. 497-502.