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L’ISPIRAZIONE CLASSICA NELLA MONETAZIONE FARNESIANA PER PARMA E PIACENZA, FRA XVI E XVII SECOLO

di Emanuela Ercolani Cocchi

Il Corpus Nummorum Italicorum, nato dalla passione storica e collezionistica di Vittorio Emanuele III, fornisce una base fondamentale per lo sviluppo degli studi sulla monetazione italiana, documento primario per la comprensione dei processi formativi della nazione. Nessun’altra fonte testimonia con altrettanta immediatezza la complessità della storia italiana dalla caduta dell’Impero d’Occidente all’epoca risorgimentale, le vicende politiche e culturali, le luci e le ombre che hanno conferito alla nazione un volto molteplice, dotandola di tesori storici e artistici unici al mondo. Le monete prodotte nello stato farnesiano di Parma e Piacenza, al pari delle altre coniate nei cosiddetti Ducati Padani, documentano il ruolo della cultura umanistica nel governo signorile.

La moneta cittadina

Quando nel 1545 papa Paolo III Farnese assegnava al figlio Pier Luigi il feudo di Parma e Piacenza, le due città producevano da tempo monete autonome, che, sul modello della monetazione imperiale dalla quale derivavano, erano caratterizzate dal prevalere dell'elemento scritto: il nome dell'imperatore che aveva concesso il diritto di zecca e il nome della città, variamente disposti e alternati, occupavano il campo, a sottolinearne il carattere di documento ufficiale; pochi e schematici gli elementi figurati. Le prime emissioni autonome di Piacenza e Parma sono attribuite rispettivamente al XII e al XIII secolo; le due città erano state sede di coniazione già con Carlo Magno, che vi aveva emesso (fig. 1 a,b) denari con tipi costituiti da iscrizioni con il nome del sovrano su un lato e il nome della zecca sull’altro, coniati anche in altre città dell’Italia centro settentrionale. Piacenza aveva ottenuto il diritto di coniazione dall’imperatore Corrado II, tre anni dopo Genova, e aveva iniziato la coniazione nel 1140, mentre a Parma le prime coniazioni ebbero inizio fra il 1207 e il 1209 a nome di Filippo di Svevia e di Ottone di Brunswick. Un rapporto con l’area genovese anche per Parma si può individuare nell’adozione, in entrambe le città, della raffigurazione schematica della porta fortificata, derivante dal nome della città, Ianua. Mentre Piacenza si atteneva nelle proprie emissioni esclusivamente a tipi epigrafici, Parma mantenne la porta fortificata anche per i tipi di denari e grossi (fig. 2 a,b) a nome di Federico II imperatore (1220-1250), la cui produzione si protrasse nel tempo[1].

I simboli cittadini a Parma dal medioevo al periodo farnesiano

Con il progressivo affermarsi delle autonomie cittadine vennero identificate immagini simboliche rappresentative delle diverse comunità sul modello delle immagini araldiche di origine nobiliare; in Parma e Piacenza alcune si radicarono così saldamente da essere poi recepite anche nella simbologia del periodo farnese. Le raffigurazioni di ambito religioso, in prevalenza santi cui era dedicata una particolare devozione locale, ebbero un ruolo rilevante e furono utilizzate anche come tipi monetali, in quanto immediatamente identificative della città. Il nuovo grosso da 10 denari di Parma (fig. 3 a,b), che veniva a collocarsi fra i grossi di circa 2 grammi di peso prodotti da Cremona, Brescia, Pavia, era contrassegnato dall’immagine di sant’Ilario, sul modello del nuovo ambrogino milanese, caratterizzato dall’immagine di sant’Ambrogio in veste episcopale, seduto sulla cattedra e in atto di benedire. La scelta corrispondeva a un fenomeno presente in numerosi comuni dell’Italia centro-settentrionale fra la fine del XIII secolo e gli inizi del XIV, dove il santo patrono, identificato in una figura vescovile, venne utilizzato come sigillo monetale in corrispondenza di nuovi fermenti della vita cittadina. Sant’Ilario, vescovo di Poitiers tra il 310 e il 320, morto nel 367 e proclamato dottore della Chiesa nel 1851, contraddistingue il grosso parmigiano e resta come elemento costante nel patrimonio religioso ed emblematico cittadino, fornendo il tipo per i nominali minori anche per tutto il periodo farnesiano, ma il suo diretto rapporto con la città è privo di effettivi riscontri storici. Secondo la tradizione, essendo stato esiliato in Asia a causa della sua lotta contro l’arianesimo, durante il viaggio di ritorno verso la Francia sarebbe passato dalla città, dove fra l’altro un pietoso calzolaio gli avrebbe sostituito le scarpe lacere, dando origine alla consuetudine, ancor oggi vigente, di consumare, in occasione della festività del santo, dolci a forma di scarpette. In realtà il culto acquisì un ruolo ufficiale nell’ambito del rafforzarsi del partito guelfo sostenuto dagli Angioini e in connessione con la creazione, da parte di Giovanni Barisello, della Società della Croce, alla quale il santo veniva già collegato in documenti del 1266. Un trattato di pace del 1286 fra Parmensi e Modenesi lo annoverava, accanto a Maria Vergine e a san Giovanni Battista, fra i patroni di Parma. Nel periodo successivo altre furono le immagini utilizzate nelle monete battute nella città, ma il santo era destinato a riprendere il suo ruolo sui rarissimi ducati d’oro e sui denari in lega, con iscrizione S. Ilarius Episcopus, intorno al busto del santo, e Parma Libera, intorno a croce gigliata, emessi nel 1447, dopo la morte di Filippo Maria Visconti, e, in seguito, sulle monete divisionali a nome di Francesco Sforza (fig. 4 a,b). Da questo momento fu una presenza costante dal periodo pontificio a tutto il periodo farnesiano, al pari di altri simboli religiosi come la Vergine Assunta, cui era dedicata la cattedrale, che aveva avuto per prima il ruolo di protettrice della città. Il sigillo cittadino usato per i documenti ufficiali del Comune, datato fra la fine del XIII e la prima metà del XIV secolo, la raffigura seduta su un trono punteggiato di stelle, con la destra levata; ai lati, volti verso di lei, due torelli e attorno l’iscrizione Hostis turbetur quia Parmam Virgo tuetur. Un secondo sigillo, realizzato nel 1471 dall’incisore Giovan Francesco Enzola, caratterizzato dallo stesso motto, che fa riferimento alla vittoria su Federico II di Svevia, la raffigura in trono incoronata dal Redentore. A fianco, con croce e fascia con iscrizione S. Ioa. B. (san Giovanni Battista), che condivideva con lei il ruolo centrale nella città, grazie al battistero a lui dedicato, collocato accanto alla cattedrale. Sull’altro lato, sant’Ilario, identificato da S. Hilarius sul lembo del piviale, benedice con la destra e regge con la sinistra uno stendardo con croce. Sotto la scena, due scudetti, quello di sinistra decorato da un torello rampante, quello di destra da una croce; nel vessillo retto da sant’Ilario la formula Aurea Parma recupera l’appellativo di Chrysopolis, risalente al breve periodo in cui la città fu occupata dai Bizantini[2]. Gli elementi emblematici del sigillo vennero utilizzati per i rarissimi ducati d’oro del breve periodo di autonomia, recanti al dritto la scena di Cristo che incorona la Vergine e al rovescio i santi Giovanni Battista e Ilario che reggono insieme lo stendardo civico[3], per un ducato d’oro a nome del pontefice Giulio II[4] e per uno zecchino a nome di Adriano VI[5]; in seguito il solo sant’Ilario era destinato a rimanere come costante della monetazione parmigiana, in prevalenza per i nominali di più ampio utilizzo, anche durante il periodo pontificio e poi nelle emissioni dei Farnese e dei Borbone.

La scena dell’incoronazione, ripresa già nella moneta pontificia a nome di Clemente VII (fig. 5 a,b), fu tema costante delle emissioni farnesiane a partire dai quarti di scudo in argento anepigrafi, con stemma o testa di Ottavio (fig. 6 a,b), la Vergine seduta e leggermente reclinata è incoronata da Cristo che tiene lo scettro nella sinistra, sopra di lei sta lo Spirito Santo. Lo schema fu utilizzato anche per lire in argento, contrassegnate dal segno XX che indica il numero di soldi contenuti, nelle quali ricorre l’iscrizione Parma Colonia civium romanorum. Durante il ducato di Alessandro Farnese nella serie dei multipli di lira in argento fu emesso anche il pezzo da 80 soldi con iscrizione Parma Civium Romanorum Colon. e la scena dell’incoronazione; la Vergine non è seduta, ma inginocchiata davanti a Cristo stante (fig. 7 a,b) (CNI IX, p. 464 n. 23), mentre per i pezzi da 40 e 20 soldi, che proseguirono anche sotto Ranuccio I, non vennero introdotte modifiche (fig. 8 a,b).

Anche i giuli e mezzi giuli in argento, di più ampia circolazione, riprendono i santi cittadini affermatisi nell’epoca precedente: S. Ilario e S. Tommaso, che era entrato nel novero dei protettori della città in un momento particolarmente critico, quando Parma e Piacenza, passate dal dominio sforzesco ai possedimenti pontifici, erano cadute in mano, come Milano, ai francesi. Papa Leone X le aveva recuperate, ma nel 1515 questi ultimi avevano nuovamente occupato Piacenza, mentre Federico Gonzaga di Bozzolo aveva assediato Parma il 21 dicembre, giorno nel quale si celebra S. Tommaso, ed era stato respinto grazie alla coraggiosa resistenza di tutti i cittadini. Le coniazioni di Adriano VI, che lo raffigurano con il dardo sulla spalla a ricordare lo strumento del suo martirio, lo introducono stabilmente nel patrimonio iconografico della moneta parmigiana (fig. 22 a,b).

L'immagine della Vergine della Steccata (figg. 9 a,b, 10 a,b, 11 a,b e 12 b), che, accompagnata dall'iscrizione Sub Tvvm Praesidivm, (sotto la tua protezione), contraddistingue alcune emissioni di Clemente VII, si riferisce allo stesso assedio. Sul muro dell'oratorio di S. Giovanni Battista, costruito nel 1393, era stata dipinta un'immagine, ritenuta miracolosa, della Madonna in atto di allattare il Bambino: fu necessario costruire una palizzata (steccata) per contenere la folla che vi si accalcava attorno[6]. Nel 1521 era iniziata la costruzione di una Chiesa destinata ad accoglierla più degnamente, interrotta poi a causa della guerra; al termine i cittadini attribuirono alla sua protezione la loro salvezza. Il tipo fu ripreso più tardi da Ranuccio I, ma assunse un ruolo principale nelle emissioni di Odoardo, arricchito da due cherubini che incoronano la Vergine, per commemorare una cerimonia solenne durante la quale all'immagine erano state aggiunte due corone. L’iscrizione Svb Tuum Praesidium (sotto la tua protezione), è sostituita dalla frase Mille Clipei Pendent, tratta dal capitolo quarto del Cantico dei Cantici, di analogo significato (fig. 13 a,b), il tipo fu realizzato da Gasparo Mola, uno dei principali incisori italiani di coni per monete e medaglie[7].

Nel sigillo più antico comparivano due torelli, simboli estranei alla sfera religiosa, che traggono origine da Torello di Strada da Pavia, podestà a Parma nel 1222, il quale nel 1227 aveva iniziato la costruzione del palazzo Comunale dove fuit positus torellus lapideus, nominatus a nomine potestatis [8]. Gli statuti comunali riferiti al 1316 prescrivevano che il mercato si tenesse nei pressi del torello; nel 1318 e nel 1319 l’immagine venne utilizzata come tipo per monete del valore di mezzo imperiale e dei parmigiani piccoli equivalenti a un terzo di imperiale, definiti rispettivamente "torelli" e "torellini", coniati su tondelli convessi. Il torello, divenuto simbolo del Comune, aveva assunto una funzione di garanzia pubblica anche in altri ambiti della vita cittadina: le norme relative alla produzione e alla vendita del pane del 1316 e del 1325 stabilivano che ogni pezza doveva venire bollata con il torello e questo doveva essere utilizzato anche nelle insegne delle taverne e nei recipienti per il vino. L’immagine era venuta poi a corrispondere ad una delle Arti cittadine, in parallelo a quanto era avvenuto per sant’Ilario: infatti, il sigillo della Comunitatis Becariorum Parme raffigura un bovino caratterizzato da corna poderose, con il capo di tre quarti molto simile al tipo della moneta. Inoltre il torello è raffigurato nella fascia decorativa della Cappella del Comune della Cattedrale, attribuita a Bartolino de’ Grossi (1426-1436)[9]. Anche il torello venne fatto proprio da Ottavio Farnese e dal figlio Alessandro, che lo associarono ai gigli emblematici del casato (fig. 14 a,b, 15 a,b) nelle emissioni in "mistura", cioè in lega di rame e argento, di minor valore intrinseco e quindi più adatte alla circolazione, le cosiddette "parpagliole" (termine derivante dalla denominazione di una moneta provenzale di XIV-XV secolo) con il torello, sottolineando il rapporto fra la dinastia e la città nell’iscrizione Inter Lilia Parma.

Monete e simboli cittadini a Piacenza

La moneta piacentina mantenne più a lungo i tipi originari. La prima modifica si verificò nel periodo 1313-1322, quando la città era sottoposta a Galeazzo Visconti (fig. 16 a,b); fra il 1322 e il 1410, la città passò varie volte di mano, senza che vi venisse battuta moneta, ripresa solo fra il 1410 e il 1413 da Giovanni da Vignate in quel momento signore di Lodi e di Piacenza, che poi la cedette all’imperatore Sigismondo. A questo breve periodo corrispondono emissioni di grossi che raffigurano insieme S. Bassiano, vescovo, protettore di Lodi[10] e S. Antonino in abito militare, protettore di Piacenza, in abito militare, che secondo la tradizione vi era stato martirizzato all’epoca di Diocleziano (fig. 17 a,b). Il ritrovamento delle reliquie e l’edificazione della sua basilica sono attribuiti a S. Savino vescovo di Piacenza nel 388, su ispirazione di sant’Ambrogio[11]. Raffigurato come busto con nimbo e corazza, sotto Adriano VI, con Clemente VII (1523-1534) il santo acquista una posizione preminente anche su zecchini in oro, nei quali è raffigurato a cavallo, e giuli nei quali tiene il vessillo ed è affiancato a santa Giustina con pastorale, che ne simboleggia la carica di badessa. Sui mezzi giuli la Santa appare invece al rovescio e la stessa iconografia ricorre anche per i mezzi paoli di Paolo III (1534-1545) (fig. 18 a,b); minore incidenza nei tipi monetali ebbe invece S. Savino (fig. 19 a,b)[12].

L’ispirazione classica nella monetazione pontificia per Parma e Piacenza

Da quando agli inizi del XVI secolo le due città furono sottoposte, con interruzioni e vicende drammatiche, al dominio papale, la monetazione, pur intermittente e controllata da funzionari pontifici, adottò, come si è già visto, simboli cittadini; sui nominali di maggior valore veniva raffigurato lo stemma e il busto con ritratto del pontefice, innovazione fondamentale nella raffigurazione del potere, nata in ambito umanistico[13]. Anche a Parma e Piacenza, nonostante la mancanza di una corte locale come centro propulsore delle innovazioni ispirate alla rilettura dell’antico, già durante il periodo pontificio furono realizzati tipi che ripresero e rielaborarono, in modo più o meno puntuale, iconografie monetali antiche, associandole a iscrizioni derivanti dalle fonti letterarie. In questa fase matura dell’umanesimo si manifestò l’esigenza di una più attenta conoscenza e interpretazione dei materiali antichi, nel caso specifico, delle monete, attraverso l’edizione di collezioni con riproduzioni attentamente realizzate, che vennero ad affiancare lo sviluppo su vasta scala del collezionismo e la formazione di figure specializzate di curatori[14]. A partire da Adriano VI, su nominali che portano al dritto le immagini di S. Ilario e S. Tommaso delle quali si è già detto, vengono introdotti tipi e iscrizioni che aderiscono al linguaggio classico, denotando la conoscenza puntuale di fonti scritte e di modelli iconografici antichi. Sono datati al 1522 i mezzi giuli battuti a Parma che recano al rovescio l’iscrizione Cives servati, riprendendo la formula introdotta da alcune emissioni di Augusto che, per giustificare la straordinaria posizione istituzionale assunta con la riforma del 27 a.C., ricordavano la corona di quercia che gli era stata conferita per aver salvato i Romani dalla minaccia di essere assoggettati da Antonio e Cleopatra[15]. Nelle emissioni di Parma, l’iscrizione accompagna una Vittoria alata con corona e palma (fig. 20 a,b) che rielabora, con notevole aderenza, il modello di emissioni di Marco Aurelio (fig. 21 a,b), e un altare con fiamma accesa che deriva direttamente da emissioni di Consecratio del III secolo d.C. raffiguranti l’altare come fulcro della cerimonia di divinizzazione dell’imperatore defunto, nelle quali viene ripresa anche la formula dedicatoria antica, ad esempio Divo Claudio, riferendola al santo: Divo Tome (fig. 22 a,b)[16].

La personificazione cittadina

I mezzi giuli con il tipo della Vergine della Steccata (fig. 10 a,b, 11 a,b) portano al rovescio una figura in abito militare, con elmo, lancia rivolta al suolo e scudo nella sinistra, definita dall’iscrizione Parma e circondata dall’iscrizione Fides Eccl. che si ispira, negli elementi del lessico, a schemi classici e, in particolare, al tipo di una moneta di Claudio che rappresenta Minerva. Lo scudo ha una funzione semantica fondamentale, che mette in primo piano la funzione, rivestita dalla città come baluardo contro le popolazioni liguri, stanziate nelle vicine zone appenniniche[17], infatti, secondo un’interpretazione, il nome assegnatole dai Romani deriverebbe dal vocabolo latino parma che denotava lo scudo rotondo in dotazione alla cavalleria[18]. La figura in abito militare viene così a identificarsi con la personificazione della città e, in connessione alla Vergine, della quale al dritto si richiama il praesidium, proclama la funzione difensiva di Parma, un tempo insieme a Piacenza limite estremo della romanizzazione del territorio e, all’epoca dell’emissione, caposaldo avanzato degli Stati Pontifici, durante gli avvenimenti appena trascorsi. La volontà di istituire un collegamento fra il nome della città e lo scudo genera un’iconografia dalle caratteristiche diverse da quelle che vengono adottate poco dopo per altre coniazioni, che si rifanno al prototipo della raffigurazione di Roma in epoca classica. Il termine personificazione deriva dal latino persona che indica alla lettera la maschera indossata dall’attore; nella lingua italiana viene utilizzato a definire immagini verbali o raffigurazioni che, a partire dal mondo greco e romano, concretizzano, in figure umane, concetti astratti, stati d’animo, doti morali, entità territoriali e politiche, affiancando le divinità del pantheon maggiore, con le quali condividono l’origine nella necessità di definire e ordinare in un cosmo i fenomeni naturali, identificandone la natura divina. Immagini prevalentemente femminili, ma anche maschili, sono caratterizzate da attributi e simboli, costituiti da oggetti, elementi dell'abbigliamento o animali. Fra queste rientrano anche le rappresentazioni di città, che traggono origine dal ruolo protettivo svolto da alcune divinità, Atena, Afrodite, Giunone, Cibele, nei confronti di città greche, alle quali in età ellenistica si affiancò Tyche, intesa come sorte benevola e protettrice, coincidente con la città stessa. Una prima testimonianza dell’esistenza di una personificazione di Roma si rileva già nel III secolo a.C. in un’emissione della zecca di Locri, ma le caratteristiche si precisano in Roma durante l’epoca repubblicana[19]. Le emissioni di Parma del periodo di Adriano VI (figg. 23 a,b, 24 a,b) introducono una figura femminile seduta su corazza e scudo, che tiene nella destra protesa una piccola vittoria alata e appoggia la sinistra sulla corta spada che indossa al fianco, ripetendo puntualmente, seppure con minore dettaglio, a causa delle dimensioni del nominale, lo schema iniziato nella monetazione romana imperiale all’epoca di Nerone, che a sua volta si rifaceva al modello delle emissioni di Lisimaco di Tracia e dai suoi successori in varie zecche[20]. Si tratta di sesini che accompagnano all’immagine le iscrizioni: Aurea Parma / Restituta, Servati cives, Parma Ecclesie. I mezzi giuli d'argento emessi durante la Sede Vacante del 1523 recano al dritto lo stesso tipo con iscrizione Romanorvm Colonia (fig. 25 a,b), derivata dalle parole con cui Livio definisce la città[21]. Con Paolo III la personificazione, identificata dall’iscrizione Parma in esergo e accompagnata dalla formula Sub umbra Matris Ecclesie, acquista una posizione di rilievo al rovescio degli scudi d’oro.

Anche a Piacenza, con Adriano VI, le coniazioni si fanno più organiche e consistenti e adottano tipi e iscrizioni di ispirazione classica; vi è notizia di una doppia in oro[22] con al rovescio l'iscrizione / Romanorum Colonia Eccl Reda, attorno a P // LA // CEN // TI // A. Su quattrini con iscrizione Fida Placentia la personificazione della città (fig. 26 a,b) si distingue da quella di Parma e pare voler sottolineare il superamento della fase critica, in quanto assume piuttosto un carattere civile grazie alla sedia curule, caratteristica nel mondo romano delle magistrature civili, su cui è seduta[23]; tiene nella destra tesa due chiavette incrociate, emblema del potere pontificio, mentre il rovescio completa l’identificazione cittadina attraverso la raffigurazione del santo protettore, Antonino, con nimbo e corazza.

La lupa fra Roma e Piacenza

La lupa, come nutrice di Romolo e Remo, è uno dei simboli che più immediatamente richiamano Roma e le sue origini; fa la sua comparsa come simbolo cittadino a Piacenza su mezzi giuli pontifici anonimi attribuiti al periodo di Adriano VI, alcuni dei quali portano la data 1522. Non viene però raffigurata mentre nutre i gemelli, ma in piedi (fig. 27 a,b), con la zampa alzata per esprimere il movimento, sormontata da una stella; l’iscrizione Placentia Romanorum Colonia, ricorda l’origine della città come colonia romana, mentre al dritto il ruolo di baluardo rivestito dalla stessa contro le aspirazioni francesi viene affermato dall’iscrizione Firmum Placentia Praesidium. Quattrini dello stesso periodo con iscrizione al dritto Placentie Custodia, portano al rovescio la lupa al suolo (fig. 28 a,b), con iscrizione Ad Patriam redii, oppure Cvstodia Placentie al dritto e Vigil S. Fida e lo stesso tipo. Entrambi i nominali con le stesse caratteristiche vengono poi ripresi durante la Sede Vacante del 1523. Appartiene al pontificato di Paolo III (1534-1535) un doppio giulio con iscrizione Placentia Romanorum Colonia, che porta come tipo lo stemma cittadino con lupa e dado. L’animale, che ha un ruolo costante nella monetazione Farnese, fa parte ancora attualmente dello stemma cittadino, insieme al quadrato definito "dado", ma l’origine dei due simboli sembra indipendente. La documentazione più antica si riferisce al solo dado che decora una bandiera scolpita sulla facciata del palazzo comunale, accompagnata dall’iscrizione MCCLXXXI, Die XVI Aprilis; solo nel 1436 lupa e dado vengono collegati, seppure su due scudi distinti affiancati, in un documento con il quale vengono concesse a Ugolino Crivelli, podestà di Piacenza, le insegne della città, costituite dalla Lupa di colore azzurro in campo d’argento e il Cubo o Dado d’argento in campo rosso [24]. Anche a Parma le emissioni di Adriano VI sono connotate da un puntuale riferimento a fonti letterarie e numismatiche, e si può pertanto ipotizzare che parallelamente, nel clima umanistico che, attraverso la lettura delle fonti sottolineava il ruolo della città come colonia romana e baluardo avanzato nel territorio dell’Italia settentrionale, si sia formata a Piacenza la tradizione della lupa, emblema del vessillo legionario e la si sia utilizzata come sigillo cittadino. La presenza della stella e l’iscrizione ad patriam redii suggeriscono che il tipo monetale nasca da un collegamento erudito con la descrizione dell’Eneide, in cui Virgilio parla dell’astro che accompagnò Enea fuggitivo da Troia, verso l’Italia, definito "antica madre", alla quale i troiani discendenti da Dardano, venuto dall’Italia settentrionale, dovevano ritornare[25].

La nascita del ducato e l’eredità culturale dei Farnese

Nel 1543 a Busseto il pontefice Paolo III e Carlo V, ai fini di creare un elemento di equilibrio in un’area cruciale contesa fra l’Impero, il Regno di Francia e lo Stato Pontificio, stipularono un accordo per la creazione del ducato di Parma e Piacenza. Nel 1545 il ducato fu assegnato al figlio del pontefice Pierluigi Farnese, ma la sua uccisione nel palazzo della Cittadella di Piacenza a causa di una congiura di nobili, interruppe il progetto. La città, occupata da Ferrante Gonzaga, governatore di Milano, ispiratore della congiura, fu nuovamente sottoposta all’Impero.

L’energica figura di Paolo III, al secolo Alessandro Farnese, appartenente a una famiglia nobile dell’alto Lazio, è ben nota grazie al suo ruolo per il rinnovamento della Chiesa cattolica, attraverso l’indizione del concilio di Trento e per i suoi interessi di umanista e collezionista, che nascevano dalla frequentazione, durante la giovinezza, dell’accademia romana di Pomponio Leto e poi della corte di Lorenzo il Magnifico e di papa Leone X[26]. Aveva intrapreso la carriera nella Curia romana a venticinque anni con la nomina a cardinale, ma venne ordinato sacerdote solo nel 1513, ormai quarantacinquenne, quando era già padre di quattro figli. Nel 1514, consacrato arcivescovo di Benevento, iniziava anche la costruzione di palazzo Farnese, che alla sua morte continuò ad essere arricchito dai nipoti cardinali Alessandro e Ranuccio. Come per altri principi e signori, la sua passione per l’antichità, coltivata nella frequentazione di letterati, studiosi e artisti, faceva parte di un progetto globale per la creazione di un contesto di giustificazione e valorizzazione del potere, prendendo a modello, continuamente rielaborato, l’eredità del mondo antico. La linea di continuità che legava l’idea di potere e di impero a Roma, in quanto sede del pontefice, si associava all’adesione a modelli iconografici riferibili al mondo antico, testimoniata già dalle emissioni di Carlo Magno che, dopo la proclamazione imperiale, riprendono molto puntualmente lo schema classico del busto imperiale con corona di alloro e paludamentum o dagli augustali di Federico II. Sin dalle origini dell’umanesimo le collezioni di monete ebbero un ruolo fondamentale come "illustrazioni" delle fonti scritte che descrivevano i grandi personaggi del passato, destinati a fornire il modello ai Signori che andavano consolidando il proprio potere; Petrarca dona a Carlo IV la propria collezione di monete che raffigurano grandi imperatori del passato perché gli servano da esempio: Ecce inquam, Caesar quibus successisti, ecce quos imitati studia. Sulla base di questa impostazione appare effettivamente probabile che sia stato il Petrarca a ispirare la decorazione della "Sala virorum illustrium" commissionata da Francesco il Vecchio da Carrara a Padova[27].

Partendo da questi presupposti il collezionismo aveva assunto il ruolo di affermazione di nobiltà ed eccellenza, arrivando a comprendere anche forme svariate di naturalia et mirabilia, oggetti di varia origine, apprezzati per la rarità e curiosità e a volte anche fraintesi, conservati in ambienti ad essi dedicati, come la Grotta di Isabella d’Este, accanto ai materiali di epoca classica e alle opere di pittura e scultura di artisti contemporanei. La corte di Mantova ferveva di ardore collezionistico: ci è rimasta notizia di artisti dediti al restauro e alla rielaborazione di oggetti antichi come Pier Jacopo Alari Bonaccolsi, detto l’Antico, ma rileviamo anche una frenesia di accumulo priva di scrupoli, come ci testimonia la lettera di Federico II che nel 1527 scrive al tristemente famoso Maramaldo chiedendogli, dal momento che ha in preda Roma di procurargli cose antiche [28]. A Roma attesero alla creazione e alla cura del museo di Palazzo Farnese, fra gli altri eruditi, Onofrio Panvinio, Pirro Ligorio, Paolo Giovio e soprattutto Fulvio Orsini che curò anche la collezione di monete, collocata in uno studiolo a facciata architettonica realizzato nel 1578 da Flaminio Boulanger. Le opere di scultura antiche, le collezioni di monete e di gemme o di altri oggetti, erano contestualizzate e affiancate da opere di artisti contemporanei che decoravano gli ambienti secondo un programma iconografico che identificava le origini del casato nella classicità romana. Busti imperiali moderni erano inseriti negli ovali del grande salone e nelle due principali sale del Museum Farnesianum, proseguendo il modello creato dalla Sala virorum illustrium ispirata dal Petrarca lanciarono una diffusissime moda che perdurò per tutto il XVII e XVIII secolo[29].

Pierluigi Farnese: un progetto interrotto

Nel corso del XVI secolo l’interesse per le antichità si diffuse al di fuori degli ambiti signorili: in tutta Europa si consolidavano commercianti e specialisti, soprattutto in campo numismatico. Lo sviluppo della stampa e dell’arte incisoria consentiva la diffusione di cataloghi di collezioni e opere critiche nelle quali prendeva forma la Numismatica come disciplina autonoma che, come abbiamo rilevato a proposito delle emissioni di Parma e Piacenza di epoca pontificia, forniva ispirazione a eruditi e letterati impegnati nell’ideazione dei tipi e delle iscrizioni delle emissioni contemporanee. Grazie allo sviluppo della medaglistica anche l’incisione dei coni monetali era affidata ad artisti di alto livello per l’ideazione delle immagini e la creazione dei punzoni, cioè delle barre cesellate che recavano in rilievo gli elementi principali dei tipi, ad esempio il ritratto del signore, che venivano battuti sullo specchio del conio per creare l’impronta destinata a realizzare la moneta. Pier Luigi Farnese, aveva ottenuto nel 1546 il privilegio di battere moneta tam Placentiae quam Parmae e si preparava a mettere in funzione le due zecche, dandole in locazione a Leonardo Centone e nominando "maestro delle stampe" (cioè incisore dei punzoni per la creazione dei coni) di Parma e Piacenza"[30], Leone Leoni, uno dei più importanti artefici del periodo, attivo nella zecca di Roma e dal 1542 impegnato nella realizzazione dei coni della zecca di Milano per le emissioni di Carlo V[31]. In questa fase Gianfederico Bonzagna produsse per lui una medaglia in bronzo: al dritto l’iscrizione P. Loysivs. Far. Par. Et. Plac. Dvx. I accompagnava il busto con corazza, al rovescio In. Virtvte. Tva. Servati. Svmvs si associa all’immagine di un "liocorno" col corno affondato in un ruscello infestato da serpenti; ai lati stanno un toro e una lupa, emblemi di Parma e Piacenza[32]. L’unicorno, animale mitologico presente anche nella simbologia estense, è raffigurato insieme a una fanciulla in un particolare del fregio dell’affresco della sala del Perseo (Roma, Castel Sant'Angelo), realizzato da Perin del Vaga e aiuti. In associazione al motto "Virtus securitatem parit," era stato ideato, secondo quanto lui stesso affermava, al pari delle altre principali imprese farnesiane, da Annibal Caro, che fungeva da segretario di Pier Luigi e dopo la sua uccisione passò al servizio del cardinale[33]. Il liocorno compare anche nell’atrio di Palazzo Farnese; l’animale fantastico, che poteva essere domato solo da una Vergine (la fanciulla), esprime il concetto di purezza e contemporaneamente di fermezza e coraggio. Nella medaglia a nome di Pierluigi, affondando il corno nell’acqua, la purifica dalle serpi, cioè dagli intrighi di coloro che si opponevano al suo governo sul ducato, identificato da torello e lupa, i due animali simbolici di Parma e Piacenza. L’unicorno fu ripreso da Ranuccio II, che lo utilizzò come tipo di un testone in argento con lo stesso schema del corno affondato nell’acqua e l’iscrizione Et Sibi Et Aliis; l’animale mitologico è raffigurato in connessione a Ranuccio anche nell’antiporta del I volume dell’edizione della collezione Farnese "I Cesari in oro" di Paolo Pedrusi (figg. 46 a,b e 48).

Le personificazioni nella monetazione farnesiana.

Il figlio di Pierluigi, Ottavio (1547-1586), che nel 1536 a quattordici anni aveva sposato la figlia di Carlo V, Margherita d’Austria, già vedova di Alessandro de’ Medici, tentò inutilmente di ottenere dal nonno Paolo III il governo di Parma, che gli venne restituita solo dal successore Giulio III nel 1550. Gli scontri del Farnese con il papato e con l’Impero si risolsero solo nel 1552, mentre Piacenza gli veniva concessa nel 1556 dal re di Spagna Filippo II. Adriano VI aveva utilizzato su emissioni di giuli la formula Urbis Parmae securitas, attorno al proprio stemma (fig. 29 a,b), in alternativa alla formula Parmae Dominus. Le prime monete coniate a Parma a nome del duca alla riapertura della zecca (1552) sono scudi d’oro: al dritto con Oct. F. Par et P. Dux II, si associa il rovescio con iscrizione Securitas P Parme o Parmen, raffigurante una figura femminile seduta, che regge il capo con il braccio destro con gomito sul trono, con la sinistra tiene uno scettro gigliato; dietro ha una pianta di giglio, davanti un altare con fuoco acceso. Il tutto riprende lo schema di emissioni romane di Paolo III, ma il prototipo è riconoscibile nella personificazione di Securitas, tipo ricorrente dall’epoca di Nerone[34], utilizzato già in antico per affermare, in momenti critici, la saldezza del potere. Un analogo esemplare con sigla del Fraschini ed iscrizione Secvritas.P. Piace, rivendica il possesso di Piacenza[35]. A Parma le emissioni in oro con questo tipo proseguirono negli anni successivi anche a nome di Alessandro. Una simile ripresa puntuale di modelli monetali antichi si può riscontrare nei testoni o medaglie a nome di Carlo V, con il tipo di Pietas, derivante direttamente da esemplari di Caligola[36]; nelle emissioni di Parma viene introdotto un simbolo che lega lo schema all’attualità: i gigli della casata. Il linguaggio allegorico trovava impiego in tutte le forme artistiche e dava origine a modifiche o nuove creazioni. I quarti e mezzi quarti di Ercole II d’Este (1534-1559) raffigurano una figura femminile in atteggiamento sottomesso, incatenata presso una fonte, dalla quale scendono gocce destinate a intaccare lentamente la catena, accompagnata dall’iscrizione Superanda Omnis Fortuna. La nuova personificazione "Pazienza", che ripeteva il soggetto di una tela dipinta intorno al 1533 dal pittore Camillo Filippi, sulla base dello schema suggerito da Giorgio Vasari, costituiva "l’Impresa" del Duca, cioè il suo emblema[37]. Il tipo di Securitas nella monetazione di Ottavio Farnese caratterizzava esemplari in oro, destinati a una circolazione limitata di alto livello, e allo stesso circuito era rivolto anche l’utilizzo della personificazione di Parma, che costituiva anche il tipo di una medaglia in bronzo realizzata dal Bonzagna con il busto con corazza e iscrizione Octavivs. F. Parm. Et. Plac. Dvx. Al rovescio si riprendeva l’iconografia delle emissioni di epoca pontificia con personificazione di Parma, con elmo, seduta su armi, che appoggia il braccio sinistro allo scudo e tiene nella destra una Vittoria alata, con iscrizione Parma [38] . Lo stesso schema è utilizzato nelle emissioni di mezzi scudo d’oro nelle quali la città regge uno scettro gigliato, richiamando, come l’iscrizione "Inter lilia Parma", il dominio farnese. Parma è seduta su di un’anfora dalla quale esce acqua, che rappresenta il fiume omonimo. Ritornano invece alla formula che ricorda l’origine di colonia romana i quattrini (fig. 30 a-c) nei quali la personificazione di Parma, seduta sull’anfora, tiene Vittoria alata e lancia ed è associata all’iscrizione Par. R. Col, e i sesini con personificazione stante con asta che regge con la destra lo scudo crociato, emblema del comune, e iscrizione Par. Col. Civ. Roma (fig. 31). Anche nella zecca di Piacenza, riaperta nel 1564, Ottavio riprese la lupa, per testoni, doppie e multipli di doppie, inserendola nella cornice della pianta di gigli e della corona ducale, e associandola all’iscrizione Placentia Floret (figg. 32 a,b, 33 a,b). Nei multipli in argento una scena più complessa accosta alla personificazione di Piacenza, con elmo, che tiene nella destra il giglio araldico stilizzato e nella sinistra una cornucopia ricolma di spighe e di frutti, la personificazione del fiume Po che, sdraiata al suolo, versa acqua da un'anfora. Il mezzo scudo del 1575 porta solo l’iscrizione Placentia e la data, mentre ducatoni, mezzi ducatoni e doppi ducatoni senza data sono accompagnati dall’iscrizione Placentia Romanor Col; il tipo prosegue con il figlio Alessandro, che inserisce a destra la lupa che appoggia la zampa allo stemma cittadino con dado (fig. 34 a,b). Al rovescio di Parpagliole con il busto congiunto di Ottavio e del figlio Alessandro, prodotte in abbondanza dopo la riapertura della zecca, insieme a soldi con S. Antonino a cavallo, la personificazione di Piacenza con elmo è invece raffigurata seduta, accanto a una pila di armi con il braccio appoggiato allo scudo e un ramo adorno di sei gigli in mano, la accompagna l’iscrizione Felix sub his Plac (fig. 35 a,b).

Il monte Olimpo

Il recupero del linguaggio classico non si limitava all’ambito romano: un testone a nome di Ottavio (fig. 36 a,b) riporta nell’iscrizione di rovescio, in caratteri greci, un verso da Le Opere e i Giorni di Esiodo, che esprime il concetto che le imprese appaiono facili dopo che sono state compiute e raffigura Ercole che addita un monte. L’impresa cui si fa riferimento è la conquista di Piacenza, il monte è l'Olimpo, sede degli dei secondo la mitologia greca, utilizzato anche nella monetazione dei Gonzaga come immagine emblematica di una vetta di estrema altezza, completamente priva di venti e quindi espressione anche di assoluta serenità; nel caso del Gonzaga fa riferimento, mediante l’iscrizione Fides, al livello altissimo di fedeltà di Federico II Gonzaga nei confronti dell’imperatore[39]. Nel caso di Ottavio si riferisce invece alla difficoltà del recupero di Piacenza: il monte viene raffigurato anche in una medaglia a suo nome, associato al verso "Nubes excedit Olympus" di Lucano[40]. Altrettanto erudita la raffigurazione di una medaglia che raffigura Apollo che deride Marsia che aveva osato competere con lui nel canto e che perciò, vinto, era stato scorticato; l’iscrizione Cvm Diis Non Contendendvm (non bisogna sfidare gli dei) si riferisce anch'essa alla vicenda di Piacenza.

Le Tre Grazie

Il tipo del testone, eccessivamente, erudito non ebbe seguito, ma ben altro successo registrò lo scudo con iscrizione Istis Dvcibvs associata ad una raffigurazione estremamente armoniosa del gruppo delle Tre Grazie, ai cui piedi sta uno scudo, emblematico del nome della città, conferitole dai Romani (fig. 37 a,b). Le tre fanciulle, entità divine associate a Venere, Apollo e Dioniso, rivestono un ruolo simbolico in rapporto alle idee di armonia, eleganza, sensibilità artistica e creatività. Numerose raffigurazioni ne testimoniano la popolarità nel mondo antico, nella Biblioteca Piccolomini del Duomo di Siena, ad esempio, si trova un gruppo di epoca romana che adotta lo stesso schema di alcuni mosaici e pitture da Pompei, nei quali la figura centrale è vista di spalle e le due laterali si presentano frontali. Questa soluzione iconografica fu ripresa da numerosi artisti rinascimentali, mentre nel XVIII secolo Antonio Canova innovò lo schema presentando le figure in semicerchio[41]. Le Tre Grazie vennero raffigurate nello schema tradizionale anche da Antonio Allegri da Correggio (ca. 1489-1534) nel complesso dell’ex Convento di San Paolo a Parma, nella decorazione della cupola della Camera della Badessa Giovanna da Piacenza, donna colta, circondata da un cenacolo di studiosi ed umanisti. L'opera, datata attorno al 1519, si presenta del tutto peculiare nel panorama della produzione dell’artista a causa dello stile innovativo e originale che attinge a modelli antichi. Sul fregio, per il quale sono state proposte numerose interpretazioni in chiave simbolica, si impostano quattro lunette per ciascun lato, dipinte a monocromo, che, grazie al chiaroscuro, assumono l’aspetto di nicchie con sculture antiche, prevalentemente composte da una personificazione o una divinità singola, definita dall’abbigliamento e dagli attributi che l’accompagnano; alcune di queste, come Fortuna, con cornucopia e timone su globo, Africa con pelle elefantina sul capo e spighe, mostrano una diretta derivazione da originali della monetazione[42]. Le Tre Grazie del conio farnesiano, di poco successive, modificano il modello più diffuso, presentando di spalle la prima figura dalla destra; inoltre, mentre tutte le precedenti raffigurazioni, ad eccezione di quella botticelliana, presentavano corpi carnosi e, nel caso del Correggio, decisamente massicci, qui le figure si presentano allungate e flessuose, richiamando le opere di Francesco Mazzola, detto il Parmigianino (Parma, 1503 - Cremona, 1540) che si allontana dal Correggio per la ricerca di sinuosità e distorsione della forma ottenuta attraverso l’allungarsi delle figure, ben documentato dalla cosiddetta Madonna dal collo lungo, opera incompiuta conservata a Firenze nel Museo degli Uffizi o dalle figure del sottarco absidale della Madonna della Steccata di Parma[43]. Le direttrici dell’iconografia monetale nascevano all’interno degli ambienti politici, con l’intervento di eruditi e studiosi mentre la realizzazione veniva effettuata da artefici di livello più o meno alto. Il tipo, ideato in seno all’Accademia degli Incamminati, fu realizzato dall’incisore Casalini, che fra il 1564 e il 1597, preparò tutti i punzoni per le monete di Parma e Piacenza, dove furono utilizzati molto a lungo[44] (fig. 38 a,b). Il cuniatore o maestro delle stampe, così erano definiti gli artisti o artefici, non apponeva la firma sulle monete, perché non preparava i coni, bensì i punzoni, detti "cunei", con gli elementi iconografici che servivano a creare i coni, utilizzati poi da operai della zecca. Erano invece gli zecchieri, che avevano in appalto la zecca e producevano le monete, ad apporvi le proporre sigle, per evitare frodi.

Il modello di Alessandro Magno nella dinastia Farnese

Alessandro Farnese, figlio di Ottavio, nato il 27 Agosto 1545, intraprese giovanissimo la carriera delle armi e servì come generale Filippo II di Spagna, compiendo una brillante carriera. Le emissioni di parpagliole a suo nome, prodotte almeno in parte durante il ducato del padre Ottavio, forse per spese militari, sottolineano l’importanza del modello classico e della tradizione famigliare nelle emissioni farnesiane. Tipi e iscrizioni istituiscono uno stretto rapporto del Farnese con Alessandro Magno; al dritto, l’iscrizione: Al. F. Specvlator ., attorno al suo busto imberbe oppure di età matura, dichiara che egli assunse come proprio modello Alessandro Magno, la cui testa con elmo è rappresentata al rovescio con iscrizione Al. M. Specvlvm (figg. 39 a,b, 40 a,b). Anche il pontefice Paolo III, ancora cardinale con il nome di battesimo di Alessandro, aveva fatto riferimento al condottiero macedone, facendone rappresentare l’immagine negli affreschi di Castel Sant'Angelo eseguiti tra il 1544 e il 1548. Nelle parpagliole l'immagine identificata con Alessandro Magno non è riconducibile ai ritratti idealizzati del condottiero che vennero apposti sulle emissioni dei suoi successori o al prototipo della testa di Eracle, mitico progenitore della dinastia macedone, raffigurato sulla sua monetazione in argento, ma deriva piuttosto dalla testa di Atena che contraddistingue gli stateri in oro prodotti nelle varie zecche del suo Impero, interpretata in età rinascimentale come suo ritratto[45]. Anche una medaglia, coniata per ricordare la conquista da parte di Alessandro Farnese della città di Anversa, giudicata imprendibile, sottolinea il rapporto ideale del condottiero con Alessandro Magno, al quale lo accumunava anche la giovinezza. Secondo la tradizione il Macedone, durante l'assedio di Tiro, avrebbe sognato di inseguire e di catturare con gran fatica un satiro: nella medaglia farnesiana, il Satiro indica ad Alessandro, che sta uscendo dalla tenda, la città che sta per cadere nelle sue mani. Sulla base delle emissioni di parpagliole della zecca di Piacenza con date distribuite fra il 1561 al 1609, che presentano i due busti affiancati con iscrizione Odoardus et Ale PP, è possibile confermare l’inizio delle emissioni durante il Ducato del padre Ottavio; nel caso specifico la coniazione proseguì anche durante il ducato di Ranuccio I. Un dipinto di Girolamo Mazzola Bedoli, eseguito nel 1556 e conservato a Parma nella Galleria Nazionale, conferma la precoce destinazione alla carriera militare e alla gloria di Alessandro, raffigurandolo adolescente in armatura da parata, seduto su una grande sfera, con il bastone del comando in mano, abbracciato amorevolmente dalla personificazione di Parma, che con la sinistra, regge lo scudo con croce, emblema del Comune, adorno dei gigli Farnese, mentre alle sue spalle una figura alata su globo, sul modello della Vittoria romana, viene identificata, grazie alla presenza della tromba, come personificazione della Fama [46].

I ritratti all’antica dei primi Farnese

In entrambe le zecche farnesiane il dritto era riservato allo stemma ducale o al ritratto, che instaurava un rapporto più diretto con i sudditi. Nel periodo di Ottavio e di Alessandro si pone in evidenza l’aspetto guerriero del Duca; per Ottavio si registrano tre tipi di ritratto, tutti caratterizzati da semplicità e vigore, acconciature corte e ben delineate, barba e lineamenti marcati. L’esemplare con monte Olimpo presenta la parte alta del busto con una corazza di tipo contemporaneo, minuziosamente descritta, mentre nel busto associato al conio delle Tre Grazie, che è visto frontalmente e ha il capo di profilo, la corazza adorna di spallacci lavorati ha un’egida molto elaborata sul petto, che richiama la copia di uno dei dodici Cesari di Tiziano[47]. Un terzo tipo di ritratto è quello del testone, definito da un taglio appena sotto al collo, con capelli e barba tratteggiati in modo meno realistico; un interessante raffronto si può proporre con la raffigurazione dei busti di Carlo V sulla moneta milanese, tenendo anche conto del rapporto famigliare, oltre che politico, in quanto Ottavio aveva sposato la figlia naturale di Carlo V, Margherita.

Ranuccio I fra continuità e innovazione

Il duca Alessandro moriva a causa di una ferita nel 1592 ad Arras, gli succedeva il figlio Ranuccio I, che aveva già governato a nome del padre, impegnato nelle imprese guerresche. Nelle due zecche si riutilizzarono coni precedenti, modificandone la data e mantenendo al dritto il ritratto di Alessandro con relativa iscrizione, pratica presente anche in altri periodi. Per i numerosi ducatoni e ducatoni doppi, Ranuccio introdusse una nuova iconografia di ispirazione classica, a simboleggiare la legittimità del potere farnesiano, acquisito tramite il valore nelle armi e l’abilità nel governare, concetti concretizzati dalle figure di Marte e Minerva, che reggono insieme la corona ducale posta sopra i gigli emblematici del casato, accompagnata dall’iscrizione Quaesitam Meritis, (ottenuta grazie ai meriti) (fig. 41 a,b). Come nel conio delle Tre Grazie, gli elementi del lessico forniti dalla tradizione erudita antiquaria sono realizzati con uno stile fluido e movimentato, caratteristico del manierismo, che non conosce ancora la ridondanza del barocco. Le due figure che reggono la corona ricordano nella torsione e nell’allungamento la figura elmata dell’affresco della Sala del Bacio nel Palazzo del Giardino eseguita fra il 1569 e il 1570 dal pittore bolognese Girolamo Mirola in collaborazione con il parmense Jacopo Bertoia[48]. Aderisce invece a nuovi modelli la nave fra le onde con pilota sulla prua dei ducatoni del 1621, con iscrizione Adversis Provecta Notis, che simboleggiano la capacità del duca di reggere e fare progredire lo stato anche sfruttando le avversità, come fa la nave che avanza con il vento contrario (fig. 42 a,b). L’influsso del gusto barocco è registrabile da questo momento anche per i busti del dritto, che ostentano gorgiere e pesanti corazze riccamente cesellate. Nella zecca di Parma furono prodotte anche emissioni di ongari, monete d’oro ispirate alla volontà di adeguarsi a una circolazione più ampia; il tipo, che rappresenta il duca stante in abito militare. aderiva a uno standard iconografico corrispondente a un valore intrinseco universalmente accettato. Nella zecca di Piacenza, Ranuccio fece coniare anche nuove doppie, dette "del vento" sulla base del tipo che raffigura una testa al di sopra del mare che soffia tra le nubi, mettendo così in atto il progetto del duca Alessandro di emettere monete che potessero inserirsi nel circuito degli "Scudi d’oro delle cinque stampe, cioè di Roma, Spagna, Venezia, Genoa et Fiorenza et dappoi alle cinque stampe è stata aggiunta una detta del vento, la quale nella zecca di Piacenza viene fabbricata ad istanza dei banchieri delle dette Fiere… [49].

La coniazione al torchio

Odoardo successe al padre Ranuccio a soli 10 anni sotto la tutela dello zio cardinale Odoardo e poi della madre duchessa Margherita Aldobrandini. Nel 1628, a 16 anni, sposò Margherita de’ Medici, figlia del granduca di Toscana e iniziò il governo autonomo. Le circostanze internazionali e il desiderio di emulare l’antenato Alessandro lo indussero a imprese militari che, in congiunzione con la peste del 1630, ebbero conseguenze molto negative sul ducato; morì nel 1646, a soli 36 anni. Durante il suo ducato si registrò un notevole cambiamento nelle scelte iconografiche, con deciso predominio dei temi religiosi. La già citata ripresa del tipo della Vergine della Steccata fu molto consistente; a partire dal 1623 il tipo realizzato da Gaspare Mola venne utilizzato per coni che introducevano un’importante novità: la coniazione al torchio, anziché al martello. Lo zecchiere Magno Lippi fin dal luglio del 1622 aveva stipulato una convenzione con Luca Xell, tedesco che operava come zecchiere a Guastalla, perché lavorasse nella zecca di Parma: Gasparo Mola consegnò le stampe il 22 maggio del 1623 al soprastante Curzio Pucci e lo Xell si mise subito all’opera "lavorando col mezzo dell’acqua a torchietto". Essendo però intervenuti dei problemi nell’appalto, questo fu assegnato ad Agostino Aguani, al quale vennero consegnati gli attrezzi di zecca che si trovavano in possesso dello Xell, che venne trasferito alla zecca di Piacenza, dove le coniazioni iniziarono solo nel 1626, a causa delle operazioni necessarie ad impiantare i meccanismi per la produzione della moneta al torchio, attivati dal mulino ad acqua. Si trattava di uno dei primi utilizzi della tecnica in Italia, destinato a produrre monete di aspetto molto più regolare. Nel rarissimo pezzo da due doppie, il giglio farnese opera di Francesco Mochi (fig. 43 a,b), fu utilizzato come tipo principale, in una raffigurazione dai toni pittorici, affiancata dall’iscrizione Florebit Et Germinabit che prometteva la continuità della stirpe[50].

Un nuovo santo cittadino

A Parma, durante il ducato di Odoardo, la schiera dei protettori cittadini raffigurati sulla moneta si arricchì con l’introduzione della raffigurazione di S.Vitale, ma la genesi del tipo sembrerebbe risalire a un periodo precedente. Secondo i documenti riportati dall’Affò, la coniazione di monete del valore di 10 giuli con questo tipo era stata richiesta, nel 1606, insieme a quella di altri tipi di monete, da un commerciante bolognese, Romeo Bocchi; questi esemplari rimasero poco in circolazione a causa del peso e della lega troppo alti e sono documentati da pochi pezzi (fig. 44 a,b). Il 18 dicembre 1626 Girolamo Moresco, Presidente della Camera Ducale, scriveva alla duchessa Margherita, madre e tutrice del duca Odoardo, per proporle la prova di conio di una nuova moneta in argento con il tipo di rovescio già utilizzato nel 1606, cioè la raffigurazione di S. Vitale, associata al dritto con il ritratto del duca Odoardo, nato proprio nel giorno di questo santo. Nelle emissioni a nome di Odoardo viene ripresa in modo consistente la raffigurazione di S. Vitale, a mezzo busto, barbuto, con corazza, che tiene con la destra lo scettro e appoggia la sinistra sull’elsa della spada[51]. La coniazione venne iniziata nel 1627: la moneta, che prese il nome di tallero, veniva battuta con un valore di sei lire e sette soldi, con l’aggiunta dell’iscrizione Scudo (fig. 45 a,b). I primi documenti riferiti ad una chiesa intitolata al martire Vitale in Parma sono databili alla fine dell’XI secolo; nel 1644 divenne sede della confraternita del Suffragio, della quale facevano parte Ranuccio II e la madre Margherita de’ Medici, oltre che altri membri della corte. L’edificio originale, divenuto insufficiente, venne ricostruito a partire dal 1651 a poca distanza, lungo l’attuale via Repubblica[52]. S. Vitale entrava stabilmente a far parte del repertorio iconografico delle emissioni ducali, anche per nominali minori e in diverse versioni, affiancando e superando S. Ilario e S. Tommaso, che rimanevano relegati alle emissioni divisionali, mentre il collegamento con l’ambiente della corte spiega il suo utilizzo per nominali di alto valore.

Ranuccio II, Francesco e l’edizione della Collezione Farnese

Ranuccio II successe al padre Odoardo a 16 anni; trovatosi in guerra con lo Stato Pontificio, fu sconfitto il 13 Agosto 1649 nei pressi di Bologna, Castro fu rasa al suolo e perse i territori pertinenti, ma nel 1682 ampliò il ducato, acquistando dai Doria le valli del Taro e del Ceno, un tempo feudo dei Landi. La sua produzione, fatta eccezione per il tipo dell’unicorno (fig. 46 a,b), riprende le iconografie dei periodi precedenti, modificando in Monstra te esse matrem l’iscrizione che accompagna la Vergine della Steccata (fig. 47 a,b). I tipi di dritto ritraggono il suo progressivo degrado fisico inquadrato dalle vistose parrucche. Le innovazioni introdotte nel repertorio iconografico monetale sono ormai decisamente lontane da un diretto rapporto con il mondo classico, che continua però ad essere oggetto di studi e di collezionismo. Durante gli anni del suo governo e di quello di Francesco I venne edita l'importante collezione numismatica dei Farnese, raccolta prevalentemente ad opera dei cardinali Alessandro ed Odoardo fra il 1573 e il 1626. Il cardinale Odoardo, che fu l’ultimo a vivere in Palazzo Farnese a Roma, aveva aggiunto alla collezione formata dal prozio Alessandro quella personale di Fulvio Orsini che gliela aveva lasciata in eredità. Morendo a Parma nel 1626, aveva lasciato disposizione al nipote duca Odoardo (1612-1646) che le collezioni e la sua biblioteca rimanessero nel palazzo a Roma: vi si trovavano ancora nel 1653, quando venne dato incarico all’Agostini di riordinarle[53].

L’edizione dei primi otto volumi avvenne a cura del gesuita Paolo Pedrusi mentre, dopo la sua morte, gli ultimi due furono curati dal gesuita Pietro Piovene (1694-1727), fra il 1694 e il 1721[54]. I volumi sono articolati sulla base dei metalli e dei moduli e, all’interno di questi, sulla base delle autorità: il primo volume dal titolo I Cesari in oro raccolti nel Farnese Museo e pubblicati con le loro congrue interpretazioni, cataloga tutti gli esemplari in oro; il II, III e IV sono dedicati alle emissioni in argento; il V ai medaglioni; i volumi successivi alle monete in "metallo", termine che indica l’oricalco e il bronzo, di grande, medio e piccolo modulo, che comprendono anche emissioni provinciali. Il titolo di tutti i volumi incentrato sul termine "Cesari" indica che la collezione si è formata, e viene ancora interpretata, secondo i criteri che hanno ispirato i primi interessi umanistici nei confronti della moneta, come documento dei grandi personaggi del passato.

Le descrizioni degli esemplari sono accurate, come le tavole, in genere aderenti agli elementi iconografici e epigrafici degli originali; le introduzioni espongono le motivazioni dell’editore e nel contempo fanno riferimento agli autori più importanti. Pedrusi era convinto che fosse necessario far conoscere "i misteri che nei metalli delle antiche medaglie tengonsi occultati" perchè riteneva che "troppa d’utilità somministrano all’intendimento nostro, ammaestrandolo con le notizie più nobili e pellegrine della Storia non men Latina che Greca e portando all’occhio della presente età quei sembianti che furono gli oggetti più venerati dei secoli scorsi. E ben convincenti ne adduce sopra ciò le prove il Dottissimo Cavaliere Ezechiel Spanhemio nelle sue Dissertazioni, De Praestantia et Usui Numismatum" (vol. I, p. IX). Riteneva che l’incapacità di interpretare le iscrizioni monetali e di comprendere il significato dei tipi per mancanza di preparazione spingesse alcuni a dichiarare di non capire perché ci si dedicasse a studiare le "medaglie". Ricorda che aveva iniziato ad occuparsi della Collezione, giunta a Parma da Roma all’epoca di Ranuccio II, collocando "nel Ducale Museo, più migliaia di medaglie in otto ordini e solo le Imperiali in oro, in argento, in medaglioni, in metallo grande, in metallo pure mezzano e piccolo; le famiglie consolari, i re della Siria, di Macedonia, dell’Egitto, di Sicilia e tutte le gran dovizie delle medaglie puramente greche". Pedrusi aveva intrapreso la stesura dei cataloghi a fini che potremmo definire didattici "adempiendo la nuova incombenza…. di stendere qualche spiegazione sopra le medesime medaglie al fine massimamente che i Serenissimi principi figliuoli possano rilevare le congrue notizie del ricchissimo tesoro che Sua Altezza possiede". Nella compilazione del volume "molti lumi mi sono stati suggeriti dal Sig. Giuseppe Magnavacca Bolognese", che ringrazia nuovamente anche nel quinto volume. Dall’introduzione dello stesso volume apprendiamo che Giacomo Giovannini Bolognese "che, oltre alla rara maestria con cui maneggia il pennello…..possiede perfettamente l’arte di incidere in rame" è l’autore de "La famosa cupola del Duomo di Parma, prodigio pittorico dell’incomparabile Correggio riportata in bellissimi intagli… e le medaglie del secondo, terzo, quarto e quinto volume". Nel volume VI, pp. XXVII - XL, Pedrusi discute alcune osservazioni mosse a sue interpretazioni dei tipi, basate sull’osservazione degli attributi e degli animali che accompagnano le raffigurazioni principali, così pure nel volume VII, alle pp. XXVII-XXX discute osservazioni e critiche che gli sono state mosse nel Giornale dei letterati d’Italia. Nel tomo IX Pietro Piovene, il nuovo curatore ne prosegue l’opera dopo la sua morte, a p. V, ricorda che l’antenato del duca Francesco, Cardinale Alessandro, quasi due secoli prima "impoverì, sto per dire, Roma tutta, raccogliendo per mano dei più stimati letterati allora viventi i più rari accreditati monumenti che Roma avesse e sono quelli che formato hanno per un gran tempo l’interesse del Museo Farnese" e ci informa che Ranuccio ha reso noto il medagliere esponendolo e facendolo pubblicare, ma tutto è enormemente accresciuto da Francesco, il quale ha acquistato "uno degli Studi di Medaglie più famosi, quello Foucault che la Francia ha goduto". Le incisioni che precedono il frontespizio si rivelano di grande interesse in quanto mostrano un particolare tecnico relativo alle modalità di conservazione ed esposizione del medagliere: le monete erano inserite in contenitori costituiti da verghe, con alveoli circolari, che racchiudevano i pezzi, consentendo di osservarli mantenendoli sempre nello stesso ordine e di vederli su entrambi i lati, probabilmente facendo ruotare le verghe all’interno dei contenitori (tavolini?) nei quali erano fissate. Nell’incisione che accompagna il primo volume, relativo ai Cesari in oro (fig. 48), Ranuccio II in corazza e ampio manto leva la destra a indicare un obelisco sul quale la "Fama" alata sta scrivendo "illustres animas nostrumque in nomine ituras" e calpesta un personaggio canuto e barbuto, armato di falce, il Tempo. Sulla base dell’obelisco poggia un piccolo unicorno, un altro personaggio femminile, con corona radiata e manto si ripara il volto dalla luce, guardando verso la Fama. In basso due putti reggono le filze con le monete, che garantiranno nel tempo la fama abbagliante degli uomini illustri e di Ranuccio. Altrettanto magniloquente la scena che accompagna il terzo volume (fig. 49), ambientata sotto la cupola del Duomo, nella quale si affollano numerosi personaggi che contemplano il ritratto di Francesco I, retto da una figura alata che tiene in mano un cartiglio iscritto "omnis in uno", nel cartiglio retto da una seconda figura, si legge "redeunt saturnia regna". Altre due figure fanno scendere dalla cupola nastri cui sono appese monete, che istituiscono un diretto parallelo fra i grandi imperatori rappresentati a destra: Augusto, Vespasiano, Antonino Pio e Marco Aurelio e i duchi predecessori di Francesco a partire da Pier Luigi Farnese. La Fama ricorre anche in altre due incisioni dedicate a Francesco: nella prima (fig. 50) regge una tromba da cui pende uno stendardo sul quale è raffigurata la lupa che allatta i gemelli, accanto a Francesco sta Roma, elmata, seduta su armi, che poggia il piede su uno scudo e leva la destra con l’indice teso nel gesto di insegnare o ammonire, mentre nella sinistra regge le filze, nella seconda incisione (fig. 51) la Fama regge il ritratto di Francesco, insieme a una figura elmata e corazzata, Parma, come simboleggia la personificazione del fiume ai suoi piedi, mentre un vecchio canuto, il Tempo, versa da un’anfora monete, che i putti raccolgono, accingendosi a inserirli nelle filze.

Attraverso il collezionismo si sconfigge l’oblio generato dal trascorrere del tempo e si mantiene la fama dei grandi del passato e dei regnanti illuminati che favoriscono gli studi. Lo stesso concetto si ritrova nel frontespizio della "Historia Augusta" di Francesco Angeloni (Roma, presso Andrea Fei, 1641), che rappresenta la Virtù coronata di alloro che recupera tra le rovine le monete e le consegna all’Eternità, adorna in fronte dell’immagine del sole, che le inserisce in un volume[55]. Il tema del tempo ricorre anche in un dipinto di Frans Denys, datato al 1670 ca., nel quale il vecchio canuto mostra il ritratto di Ranuccio II a tre fanciulle, personificazioni di Parma, Piacenza e Castro, che gli offrono le chiavi e il cuore[56].


NB: Tutti gli esemplari illustrati (figg. 1-47) sono conservati nel Museo Archeologico Nazionale di Parma, ad eccezione di quelli appartenenti alla collezione Piancastelli di Forlì. Per il CNI si utilizza la formula Cfr. quando non è possibile nel repertorio un preciso riscontro.

Figura 1 - a,b - Carlo Magno, Parma, denaro, 780-793 (CNI IX, p. 395 n. 1; MANPr 46688; g 1,13; mm 17)

Figura 1 - a,b - Carlo Magno, Parma, denaro, 780-793 (CNI IX, p. 395 n. 1; MANPr 46688; g 1,13; mm 17)

Figura 2 a,b - Parma, a nome di Federico II di Svevia, grosso, post 1233 (CNI IX, p. 397 n. 2; MANPr 46704; g 1,42; mm 18)

Figura 2 a,b - Parma, a nome di Federico II di Svevia, grosso, post 1233 (CNI IX, p. 397 n. 2; MANPr 46704; g 1,42; mm 18)

Figura 3 a,b - Parma, grosso da 10 denari, dal 1302 (CNI IX, p. 400 n. 2; MANPr 46691; g 2,09; mm 21)

Figura 3 a,b - Parma, grosso da 10 denari, dal 1302 (CNI IX, p. 400 n. 2; MANPr 46691; g 2,09; mm 21)

Figura 4 a,b - Parma. Francesco I Sforza, terlina, 1449 (CNI IX, p. 409 n. 2; MANPr 46720; g 0,63; mm 16)

Figura 4 a,b - Parma. Francesco I Sforza, terlina, 1449 (CNI IX, p. 409 n. 2; MANPr 46720; g 0,63; mm 16)

Figura 5 a,b - Parma. Clemente VII (1523-1534), doppio giulio (CNI IX, p. 428 n. 3)

Figura 5 a,b - Parma. Clemente VII (1523-1534), doppio giulio (CNI IX, p. 428 n. 3)

Figura 6 a,b - Parma. Ottavio Farnese duca II (1547-1586), quarto di scudo (CNI IX, p. 447 n. 93; g 8,80; mm 27)

Figura 6 a,b - Parma. Ottavio Farnese duca II (1547-1586), quarto di scudo (CNI IX, p. 447 n. 93; g 8,80; mm 27)

Figura 7 a,b - Parma. Alessandro Farnese duca III (1586-1591), ottanta soldi o quattro lire (CNI IX, p. 464 n. 23)

Figura 7 a,b - Parma. Alessandro Farnese duca III (1586-1591), ottanta soldi o quattro lire (CNI IX, p. 464 n. 23)

Figura 8 a,b - Parma. Ranuccio I Farnese duca IV (1592-1622), testone, 1604; utilizzati coni di Alessandro I (CNI IX, p. 483 n. 21)

Figura 8 a,b - Parma. Ranuccio I Farnese duca IV (1592-1622), testone, 1604; utilizzati coni di Alessandro I (CNI IX, p. 483 n. 21)

Figura 9 a,b - Parma. Clemente VII (1523-1534), mezzo giulio (CNI IX, p. 430 n. 21)

Figura 9 a,b - Parma. Clemente VII (1523-1534), mezzo giulio (CNI IX, p. 430 n. 21)

Figura 10 a,b - Parma. Clemente VII (1523-1534), mezzo giulio (CNI IX, p. 430 n. 27; CNI IX, p. 431 nn. 26 e ss.)

Figura 10 a,b - Parma. Clemente VII (1523-1534), mezzo giulio (CNI IX, p. 430 n. 27; CNI IX, p. 431 nn. 26 e ss.)

Figura 11 a,b - Parma. Clemente VII (1523-1534), mezzo giulio (CNI IX, p. 430 n. 24; CNI IX, p. 431 nn. 26 e ss.)

Figura 11 a,b - Parma. Clemente VII (1523-1534), mezzo giulio (CNI IX, p. 430 n. 24; CNI IX, p. 431 nn. 26 e ss.)

Figura 12 b - Impero Romano. Roma, Claudio (41-50 d.C), asse, rovescio (Collezione Piancastelli, Forlì; g 11,20; mm 29)

Figura 12 b - Impero Romano. Roma, Claudio (41-50 d.C), asse, rovescio (Collezione Piancastelli, Forlì; g 11,20; mm 29)

Figura 13 a,b - Parma. Odoardo Farnese duca V (1622-1646), ducatone, 1624 (cfr. CNI IX, p. 493 nn. 3 e ss.)

Figura 13 a,b - Parma. Odoardo Farnese duca V (1622-1646), ducatone, 1624 (cfr. CNI IX, p. 493 nn. 3 e ss.)

Figura 14 a,b - Parma. Ottavio Farnese, parpagliola (cfr. CNI IX, p. 451 n. 124)

Figura 14 a,b - Parma. Ottavio Farnese, parpagliola (cfr. CNI IX, p. 451 n. 124)

Figura 15 a,b - Parma. Alessandro Farnese, parpagliola; al rovescio, conio di Ottavio (cfr. CNI IX, pag. 471 nn. 80 e ss.)

Figura 15 a,b - Parma. Alessandro Farnese, parpagliola; al rovescio, conio di Ottavio (cfr. CNI IX, pag. 471 nn. 80 e ss.)

Figura 16 a,b - Piacenza. Galeazzo I Visconti (1313-1322), grosso (CNI IX, p. 563 n. 1)

Figura 16 a,b - Piacenza. Galeazzo I Visconti (1313-1322), grosso (CNI IX, p. 563 n. 1)

Figura 17 a,b - Piacenza. Giovanni da Vignate (1410-1413), grosso (cfr. CNI IX, p. 564 nn. 1-5)

Figura 17 a,b - Piacenza. Giovanni da Vignate (1410-1413), grosso (cfr. CNI IX, p. 564 nn. 1-5)

Figura 18 a,b - Piacenza. Paolo III (1534-1545), mezzo paolo (CNI IX, p. 581 n. 16)

Figura 18 a,b - Piacenza. Paolo III (1534-1545), mezzo paolo (CNI IX, p. 581 n. 16)

Figura 19 a,b - Piacenza. Paolo III (1534-1545), mezzo paolo (cfr. CNI IX, p. 586)

Figura 19 a,b - Piacenza. Paolo III (1534-1545), mezzo paolo (cfr. CNI IX, p. 586)

Figura 20 a,b - Parma. Adriano VI (1422-1423), mezzo giulio, 1422, (cfr. CNI IX, p. 418 n. 17)

Figura 20 a,b - Parma. Adriano VI (1422-1423), mezzo giulio, 1422, (cfr. CNI IX, p. 418 n. 17)

Figura 21 a,b - Impero Romano. Roma, Marco Aurelio, aureo, 168 d.C. (BMCRE IV, p. 449 n.457; Collezione Piancastelli, Forlì, n. 25372/3b)

Figura 21 a,b - Impero Romano. Roma, Marco Aurelio, aureo, 168 d.C. (BMCRE IV, p. 449 n.457; Collezione Piancastelli, Forlì, n. 25372/3b)

Figura 22 a,b - Parma. Adriano VI (1422-1423), mezzo giulio (cfr. CNI IX, tav. XXVII nn 28-29)

Figura 22 a,b - Parma. Adriano VI (1422-1423), mezzo giulio (cfr. CNI IX, tav. XXVII nn 28-29)

Figura 23 a,b - Parma. Adriano VI (1422-1423), sesino (cfr. CNI IX, pp. 421-423)

Figura 23 a,b - Parma. Adriano VI (1422-1423), sesino (cfr. CNI IX, pp. 421-423)

Figura 24 a,b - Parma. Adriano VI (1422-1423), sesino (cfr. CNI IX, pp. 421-423)

Figura 24 a,b - Parma. Adriano VI (1422-1423), sesino (cfr. CNI IX, pp. 421-423)

Figura 25 a,b - Parma. Sede Vacante 1523, mezzo giulio (cfr. CNI IX, p. 427 n. 3; g l,80; mm 20)

Figura 25 a,b - Parma. Sede Vacante 1523, mezzo giulio (cfr. CNI IX, p. 427 n. 3; g l,80; mm 20)

Figura 26 a,b - Piacenza. Adriano VI (1422-1423), quattrino (CNI IX, pp. 573-575)

Figura 26 a,b - Piacenza. Adriano VI (1422-1423), quattrino (CNI IX, pp. 573-575)

Figura 27 a,b - Piacenza. Adriano VI (1422-1423), mezzo giulio, 1422 (cfr. CNI IX, pp. 568-569)

Figura 27 a,b - Piacenza. Adriano VI (1422-1423), mezzo giulio, 1422 (cfr. CNI IX, pp. 568-569)

Figura 28 a,b - Piacenza. Adriano VI (1422-1423), quattrino (cfr. CNI IX, pp. 571-573)

Figura 28 a,b - Piacenza. Adriano VI (1422-1423), quattrino (cfr. CNI IX, pp. 571-573)

Figura 29 a,b - Parma. Adriano VI (1422-1423), giulio (CNI IX, p. 418 n. 13)

Figura 29 a,b - Parma. Adriano VI (1422-1423), giulio (CNI IX, p. 418 n. 13)

Figura 30 a,b,c - Parma. Ottavio Farnese, quattrino (cfr. CNI IX, p. 460 nn. 209-214)

Figura 30 a,b,c - Parma. Ottavio Farnese, quattrino (cfr. CNI IX, p. 460 nn. 209-214)

Figura 31 a,b - Parma. Ottavio Farnese, sesini (cfr. CNI IX, pp. 456-458)

Figura 31 a,b - Parma. Ottavio Farnese, sesini (cfr. CNI IX, pp. 456-458)

Figura 32 a,b - Piacenza. Ottavio Farnese, da due doppie, 1586 (cfr. CNI IX, p. 590 n.16; g 13,04)

Figura 32 a,b - Piacenza. Ottavio Farnese, da due doppie, 1586 (cfr. CNI IX, p. 590 n.16; g 13,04)

Figura 33 a,b - Piacenza. Alessandro Farnese, da due doppie, 1590 (cfr. CNI IX, p. 611 n. 1; g 13,14; mm 30)

Figura 33 a,b - Piacenza. Alessandro Farnese, da due doppie, 1590 (cfr. CNI IX, p. 611 n. 1; g 13,14; mm 30)

Figura 34 a,b - Piacenza. Alessandro Farnese, da due scudi largo, 1590 (cfr. CNI IX, p. 613 n. l3; g 63,78; mm 51)

Figura 34 a,b - Piacenza. Alessandro Farnese, da due scudi largo, 1590 (cfr. CNI IX, p. 613 n. l3; g 63,78; mm 51)

Figura 35 a,b - Piacenza. Ottavio e Alessandro Farnese, parpagliole, 1567 e 1569 (cfr. CNI IX, p. 598 nn. 3-10)

Figura 35 a,b - Piacenza. Ottavio e Alessandro Farnese, parpagliole, 1567 e 1569 (cfr. CNI IX, p. 598 nn. 3-10)

Figura 36 a,b - Parma. Ottavio Farnese, testone, 1552 (cfr. CNI IX, p. 437 nn. 10 e ss.; g 4,77; mm 26)

Figura 36 a,b - Parma. Ottavio Farnese, testone, 1552 (cfr. CNI IX, p. 437 nn. 10 e ss.; g 4,77; mm 26)

Figura 37 a,b - Parma. Ottavio Farnese, mezzo scudo (CNI IX, p. 445 n. 77; g 17,40; mm 35)

Figura 37 a,b - Parma. Ottavio Farnese, mezzo scudo (CNI IX, p. 445 n. 77; g 17,40; mm 35)

Figura 38 a,b - Parma. Alessandro Farnese, mezzo scudo; al rovescio, riutilizzato conio del periodo di Ottavio (CNI IX, p. 463 n. 15)

Figura 38 a,b - Parma. Alessandro Farnese, mezzo scudo; al rovescio, riutilizzato conio del periodo di Ottavio (CNI IX, p. 463 n. 15)

Figura 39 a,b - Parma. Ottavio per il figlio Alessandro, parpagliola (cfr. CNI IX, p. 468 n. 57)

Figura 39 a,b - Parma. Ottavio per il figlio Alessandro, parpagliola (cfr. CNI IX, p. 468 n. 57)

Figura 40 a,b - Parma. Alessandro Farnese, parpagliola (cfr. CNI IX, p. 470 n. 71)

Figura 40 a,b - Parma. Alessandro Farnese, parpagliola (cfr. CNI IX, p. 470 n. 71)

Figura 41 a,b - Parma. Ranuccio I Farnese, ducatone (cfr. CNI IX, p. 487)

Figura 41 a,b - Parma. Ranuccio I Farnese, ducatone (cfr. CNI IX, p. 487)

Figura 42 a,b - Parma. Ranuccio I Farnese, ducatone (cfr. CNI IX, p. 487)

Figura 42 a,b - Parma. Ranuccio I Farnese, ducatone (cfr. CNI IX, p. 487)

Figura 43 a,b - Piacenza. Odoardo Farnese duca V (1622-1646), da due doppie (CNI IX, p. 632 n. 4; g 13,20; mm 31)

Figura 43 a,b - Piacenza. Odoardo Farnese duca V (1622-1646), da due doppie (CNI IX, p. 632 n. 4; g 13,20; mm 31)

Figura 44 a,b - Parma. Ranuccio I Farnese, tallero da 10 giuli (CNI IX, p. 488 n. 57)

Figura 44 a,b - Parma. Ranuccio I Farnese, tallero da 10 giuli (CNI IX, p. 488 n. 57)

Figura 45 a,b - Parma. Odoardo Farnese, scudo, 1626 (CNI IX, p. 495 n. 17; g 26,38; mm 41)

Figura 45 a,b - Parma. Odoardo Farnese, scudo, 1626 (CNI IX, p. 495 n. 17; g 26,38; mm 41)

Figura 46 a,b - Parma. Ranuccio II Farnese duca VI (1646-1694), testone (CNI IX, p. 513 n. 32)

Figura 46 a,b - Parma. Ranuccio II Farnese duca VI (1646-1694), testone (CNI IX, p. 513 n. 32)

Figura 47 a,b - Parma. Ranuccio II Farnese, da due doppie (CNI IX, p. 512 n. 22)

Figura 47 a,b - Parma. Ranuccio II Farnese, da due doppie (CNI IX, p. 512 n. 22)

Figura 48 - Incisione dal primo volume dell’edizione della Collezione Farnese ad opera di Paolo Pedrusi

Figura 48 - Incisione dal primo volume dell’edizione della Collezione Farnese ad opera di Paolo Pedrusi

Figura 49 - Incisione dal terzo volume dell’edizione della Collezione Farnese ad opera di Paolo Pedrusi; la scena è ambientata all’interno del Duomo di Parma, decorato nei pennacchi da Gerolamo Bedoli Mazzola con figure allegoriche a monocromo

Figura 49 - Incisione dal terzo volume dell’edizione della Collezione Farnese ad opera di Paolo Pedrusi; la scena è ambientata all’interno del Duomo di Parma, decorato nei pennacchi da Gerolamo Bedoli Mazzola con figure allegoriche a monocromo

Figura 50 - Incisione dall’edizione della Collezione Farnese ad opera di Paolo Pedrusi

Figura 50 - Incisione dall’edizione della Collezione Farnese ad opera di Paolo Pedrusi

Figura 51 - Incisione dall’edizione della Collezione Farnese ad opera di Paolo Pedrusi e Pietro Piovene

Figura 51 - Incisione dall’edizione della Collezione Farnese ad opera di Paolo Pedrusi e Pietro Piovene

Note

[1] Ringrazio Mirella Marini Calvani e Maria Bernabò Brea per avermi autorizzato allo studio dei materiali relativi alla monetazione farnesiana da tempo intrapreso presso il Museo Nazionale di Parma e i funzionari che mi hanno assistito nella consultazione. A causa di ragioni contingenti non tutti gli esemplari riprodotti sono corredati del peso. Per la monetazione di Parma sino alla prima metà del XV secolo v. Ercolani Cocchi 2011, pp. 159-187 con bibliografia precedente. Per la monetazione farnesiana v. anche Ercolani Cocchi 1997, pp. 58-69. Affò 1788 fornisce una raccolta cospicua di documenti e notizie per tutta la monetazione della zecca di Parma. Per la monetazione di Piacenza v. Crocicchio - Fusconi - Marchi 1992 con bibliografia precedente e Crocicchio 1989.
[2] Ercolani Cocchi 2009, p. 365.
[3] CNI IX, tav. XXVII, n. 9, riprodotto.
[4] CNI IX, p. 411 n. 1 (tav. XXVII, n. 12): esemplare del British Museum, solo disegnato.
[5] CNI IX, p. 416 n. 1; Pizzi - Lopez 1971, p.158, tav. VII, 4, tav XXVII, n. 22: indicato come appartenente al Museo di Parma ma non reperito, disegnato.
[6] Gazzini 2011, p. 195 e p. 204.
[7] Affò 1788, p. 244.
[8] Affò 1788, p. 113.
[9] Carion 2009, pp. 144-155. Per la fascia decorativa con torello nella cappella del Comune si veda la fig. 38 in Greci 2010, p. 154 (Bologna, Museo Civico Medievale, inv. n. 3817, datato al XIV secolo); Benevolo 2006, p. 262.
[10] Golinelli 1996, p. 82 e nota 74; Morabito 1962, col. 963.
[11] Inventio S. Antonini (BHL 850), Canetti 1993; per S. Savino: Cattabiani 1999, p.100; il culto del Santo è attestato anche da L’Itinerario dell’Anonimo piacentino o dello Pseudo Antonino (Castignoli 1999, pp. 181-200).
[12] A Santa Giustina, nel 1222, venne intitolata, insieme alla Vergine Assunta, la Cattedrale; il culto della Santa era probabilmente giunto a Piacenza in età longobarda da Padova, ma con la traslazione da Roma nel 1001 delle reliquie di Santa Giustina martire in Antiochia, le due figure vennero nella tradizione a confluire (Canetti 1993, p. 98; Translatio Beatae Justinae (BHL 2054), Ponzini 2001, pp. 165-197). S. Savino, morto nel 396 o nel 403, amico del vescovo di Milano S. Ambrogio, fu il primo revisore del suo epistolario.
[13] Per il rapporto fra interessi umanistici, creazione della medaglia ad opera del Pisanello, introduzione del ritratto nelle emissioni monetali v. Ercolani Cocchi 1996, pp. 69-75; Eadem 1998, pp. 24-25; Travaini 2006, pp. 83-112.
[14] Per un panorama sugli studi numismatici, lo sviluppo dell’incisione, della stampa specializzata, del collezionismo e del commercio in questo periodo, v. Missere Fontana 2009, con bibliografia precedente. Un esempio della notevole rispondenza agli originali degli esemplari descritti e riprodotti in edizioni di questo periodo si può riscontrare dalla versione italiana del testo di Guillaume Du Choul, "Discorso della religione antica dei Romani, insieme un altro Discorso della Castramentatione et disciplina militare. Bagni et esercitii antichi di detti Romani", tradotto da Gabriel Symeoni e pubblicato a Lione da Guillaume Rouillé nel 1569.
[15] Ercolani Cocchi 1978, pp. 142-154. Si trattava di un’onorificenza già in vigore in epoca repubblicana che veniva conferita a chi avesse salvato un concittadino in battaglia, assegnata anche a Cicerone per aver represso la congiura di Catilina.
[16] Cfr. RIC 257.
[17] Catarsi 2009, p. 379.
[18] La critica recente ritiene che il nome della colonia possa avere un’origine preromana e precisamente etrusca (Sassatelli - Macellari 2009, p. 122; Bandelli 2009, p. 189 e p. 192.
[19] Ercolani Cocchi a.
[20] Ibidem.
[21] Liv. Hist. l.XL
[22] Citata da Bellini, 1767, p.121.
[23] La sella curulis è un basso sedile con le gambe ricurve, originariamente pieghevole, in quanto utilizzato dai magistrati che si spostavano per svolgere le loro mansioni; caratterizza le raffigurazioni dell’imperatore nello svolgimento delle sue cariche civili e come tale viene utilizzata anche per personificazioni, come Constantia nelle emissioni di Claudio, per denotare un ruolo in rapporto con l’amministrazione civile. Ercolani Cocchi b.
[24] Pallastrelli 1869; Nasalli Rocca di Corneliano 1926; Boscarelli 1996, pp 165-182.
[25] Verg. Aen. II, 680-701; Aen. III, 165-171.
[26] Bajard 1995, pp. 40-47.
[27] F. Petrarca, Rerum familiarum libri, XIX, 3.5; Mommsen 1952, pp. 95-116.
[28] Ercolani Cocchi 1996, pp. 83-84.
[29] Buranelli 2010, pp.19-33; Cellini 2010, pp. 248-252; Cantilena 1995, pp. 139-151. Sul rapporto fra collezionismo e raffigurazione all’antica dei membri delle famiglie signorili v. anche Poggi 2012, pp. 523-530.
[30] Affò 1788, pp. 165-170.
[31] Crippa 1990, pp. 35-40.
[32] Armand 1883, p. 222, n. 8, mm 39.
[33] Pronti 1995, pp. 142-153. Per l’unicorno nell’ambito dei simboli di casa d’Este v. Ercolani Cocchi 1998, pp. 16-18.
[34] Pera a.
[35] V. CNI IX, p. 587 n. 1 nota.
[36] Crippa 1990, p. 77 n. 26/B.
[37] Nicosia 1998, p. 172, scheda 16.
[38] Armand 1887, p.104, n.38, mm 32.
[39] Ercolani Cocchi 1996, pp. 84-85.
[40] Lucan. Bellum Civile II, 234-235. La medaglia è riprodotta anche in Ruscelli - Rampazetto 1566, p. 361 e ss., interpretata come allusiva alla capacità di compiere grandi imprese, ma anche all’elevatezza e serenità d’animo del Duca.
[41] Sandro Botticelli nella "Primavera" (Firenze, Galleria degli Uffizi, 1482), Raffaello Sanzio (Chantilly, Museo Condé, 1503-1504), Francesco Morandini detto il Poppi (Firenze, Galleria degli Uffizi, 1544-1597),, Pieter Paul Rubens (Madrid, Museo del Prado, 1638). Per Canova, v. Micheli 2003, pp. 277-297.
[42] Dal 1524, la camera fu incorporata nella parte del convento sottoposta alla clausura, ma se ne mantenne la conoscenza: fu visitata infatti dall’Affò, che poi ne parlò in Affò 1794. Panofsky 1961; Frazzi 2004.
[43] Riccomini 2003, pp. 41-47, pp. 77-83 e pp. 103-118.
[44] Ronchini 1872, p. 224, ristampato in Atti e memorie della deputazione di storia patria per le antiche province di Modena e Parma VI (1874).
[45] Giard 1991, pp. 309-315.
[46] Giusto 2010a, pp. 355-356 (Parma, Galleria Nazionale, inv. 1470). V. l’allegoria della Fama nella sala dei Fasti Farnesiani (Coliva 2010, p. 89).
[47] Si tratta di un dipinto di origine problematica, raffigurante l’imperatore Galba, conservato a Napoli nel Museo Nazionale di Capodimonte (inv. Q. 1157); Bile 2010, pp. 374-375.
[48] De Grazia 1995, pp. 92-93.
[49] Lettere di Alessandro Farnese dell’8 dicembre 1586 e del 7 giugno 1587. Affò 1788, p.196 e nota 133.
[50] Ibidem, pp. 246-250.
[51] Ibidem, pp. 214-218 e nota 152. Il Bocchi era anche autore del Trattato dell’aggiustamento delle monete, della giusta universal misura e suo tipo. I, Anima della Moneta. II, Corpo della moneta (1621). Ibidem, pp. 253-256.
[52] Barocelli 2005. Sulle tradizioni relative a Vitale e Agricola martiri bolognesi e sulla gemmazione del culto del solo Vitale a Ravenna v. Benati 1993, pp. 61-77.
[53] Missere Fontana 2009, pp. 328-337, dove si riportano anche discussioni sull’autenticità di alcuni pezzi.
[54] Piantanida - Diotallevi - Livraghi 1951, p. 172 n. 4496.
[55] Missere Fontana 2009, frontespizio.
[56] Parma, Galleria Nazionale, inv. 1478; Giusto 2010b, pp. 357-358.