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I cartellini della Collezione Reale, testimonianze di un'epoca: pregi e difetti

di Gabriella Angeli Bufalini

Che la Collezione Reale sia la più importante e completa raccolta di monete italiane di epoca medievale e moderna sino ad oggi conosciuta, che sia frutto della passione di Vittorio Emanuele III di Savoia per la storia economica del nostro Paese, che sia stata dal sovrano donata al popolo italiano prima di partire per l’Egitto nel 1946 e che, dopo varie vicissitudini, sia giunta nel 1971 al Medagliere del Museo Nazionale Romano di Roma, sono argomenti più volte trattati in letteratura e ormai a tutti noti.

Ciò che forse è meno noto è la straordinaria funzionalità della raccolta dovuta all’architettura con cui essa è articolata. Per il conservatore della collezione, che ha spesso l’incombenza di imbattersi nella ricerca di un pezzo all’interno di essa, trovarsi di fronte a decine di armadi tutti uguali contenenti decine di migliaia di monete e avere la necessità di cercare, in una tale mole di materiali, un determinato esemplare, emesso in una determinata epoca, da una tale autorità emittente, in una certa zecca, può essere, a dir poco, disorientante.

Eppure la struttura che Vittorio Emanuele ha concepito per la sua raccolta consente una ricerca, se non immediata, tuttavia assai semplificata. Molto razionale è il criterio con cui i pezzi sono stati disposti nei 28 armadi metallici (fig. 1), che lo stesso re fece costruire nel 1936 da una ditta di Milano in occasione del trasferimento delle monete dai vecchi armadi di legno che le contenevano.

Figura 1

Figura 1

La disposizione dei pezzi all’interno della collezione è rigorosamente geografica, per regioni, a partire dall’Italia settentrionale: all’interno di ogni regione compaiono le città sede di zecca, disposte in ordine alfabetico, ad eccezione del capoluogo, che precede tutte le altre. Nell’ambito di ciascuna zecca le monete sono disposte secondo l’ordine cronologico dettato dall’autorità che ne ha decretato l’emissione e i nominali relativi a ciascuna autorità emittente sono disposti anch’essi cronologicamente o, qualora l’anno non fosse noto, seguono un ordine decrescente, dal maggiore al minore, rispettando una gerarchia dettata dalla preziosità del metallo (oro, argento etc.). Lo stesso ordine geografico, distinto per regioni, venne utilizzato per repertoriare i materiali all’interno del Corpus Nummorum Italicorum, come anche annunciato nelle Avvertenze al 1° volume dove si rende nota la sola eccezione relativa alla catalogazione dei materiali emessi da Casa Savoia, per i quali si è seguito, indipendentemente dalla zecca, l’ordine cronologico.

In un’era assai distante da processi informatici e automatizzazioni, il re aveva dunque escogitato un meccanismo semplice ed estremamente funzionale.

Le monete sono disposte in appositi cassetti (180 per ciascun armadio) il cui interno è ripartito in n. 56 alloggiamenti, generalmente uno per ogni pezzo (fig. 2).

Figura 2

Figura 2

Nel capofila è indicata l’autorità emittente e l’anno di emissione e poi, a seguire, le monete. Ma non tutte le file di alloggiamenti sono riempite con le monete: consapevole della possibilità di successivi ripensamenti, aggiustamenti o nuove immissioni, il re riservava sempre degli alloggiamenti vuoti che consentissero l’inserimento di un nuovo pezzo nella collezione ed il conseguente slittamento degli altri. Ciascuna moneta, poi, è collocata sopra un piccolo feltro, prevalentemente di colore nero, ad indicare che quel pezzo è stato pubblicato sul CNI; in taluni casi il feltrino è di colore rosso o verde ad indicare, il primo, che quella moneta è stata immessa nella collezione successivamente alla pubblicazione del Corpus ed è quindi inedita, e il verde che il pezzo è considerato falso. Sotto ad ogni feltrino è infine collocato un cartoncino quadrato, della stessa dimensione dell’alloggiamento del cassetto, sul quale il re registrava i dati essenziali della moneta soprastante.
Ma, come nascono questi cartellini? In realtà essi non nascono insieme alla raccolta, ma sono frutto di ripensamenti e successive considerazioni.
La passione per le monete sbocciò assai presto per Vittorio Emanuele che sin da bambino cominciò a mettere insieme la propria raccolta. Ma il suo spirito collezionistico nel tempo si andò sempre più raffinando: dal libro di Lucia Travaini [1], ricco di informazioni, e dalla documentazione in esso riportata apprendiamo che dapprima egli si accorse di dover concentrare il proprio interesse su un periodo circoscritto per poter arrivare a comporre una raccolta la più completa possibile: in una lettera scritta nel 1895 al suo ex insegnante di italiano, prof. Morandi, comunicò l’avvenuta decisione di abbandonare la raccolta di monete classiche, greche e romane, per specializzarsi nella monetazione italiana di età medievale e moderna. Poi, nel 1896, decise di riordinare la sua collezione, che già ammontava a oltre 16.000 pezzi, e fu proprio allora che si accorse di aver commesso una grave omissione nel classificare le monete, cioè quella di non aver registrato la provenienza dei pezzi che via via andava immettendo nella propria raccolta. Da qui la necessità di corredare ciascuna moneta di cartellini che soddisfacessero tale esigenza (fig. 3).

Figura 3

Figura 3

Su un cartoncino quadrato, delle dimensioni di un alloggiamento, il re registrava di proprio pugno, con inchiostro nero, il nominale, talvolta la data del pezzo o la zecca, il peso, espresso per lo più in milligrammi, e la provenienza di esso, vale a dire la fonte da cui egli l’aveva ricevuto. La data “1896”, che vediamo ricorrere spessissimo sui cartellini, impressa questa volta a timbro con inchiostro rosso, rappresenta il limite cronologico più antico relativamente alla provenienza dei pezzi raccolti prima di allora (fig. 3 n. 1). Per le monete immesse nella collezione successivamente a quella data, i cartellini registrano situazioni assai diverse: spesso le nuove immissioni erano frutto di doni, elargiti da devoti sudditi che sapevano di far cosa gradita al proprio sovrano e appartenenti ai più disparati ceti sociali: vediamo registrato un “soldo”, classificato dal re come “scherzo di zecca” ricevuto in dono dal colonnello Cunietti, suo segretario numismatico dal 1911 al 1939 (fig. 3 n. 2): vediamo annotato un “grosso”, individuato come falso, ricevuto dall’illustre storico Pasquale Villari, che fu anche senatore del Regno dal 1884 (fig. 3 n. 3); al n. 4 compare la citazione di un “baiocco” ricevuto nel 1908 dal conte Luca Bruschi, personaggio di spicco della nobiltà romana, mentre al n. 5 è citata una moneta da “due” ricevuta a Tunisi nel 1904 dal sig. Luigi Montefiore di Bologna e al n. 6 si cita uno scudo ricevuto “da un povero” nel 1901.
Anche i suoi familiari contribuirono molto ad accrescere la collezione con doni di monete, soprattutto in occasione delle festività annuali (Natale o Pasqua) o del compleanno del re, l’11 novembre (fig. 4): era la moglie, la regina Elena, dapprima indicata semplicemente “Principessa” (fig. 4 n. 1) e poi con il curioso nomignolo “Possi” (fig. 4 n. 2), o i figli (fig. 4 n. 3), anch’essi affettuosamente ricordati con soprannomi (sappiamo di “Anda” per la primogenita Jolanda, “Muti” per Mafalda e “Beppo” per Umberto), o il genero “Filippo” d’Assia (fig. 4 n. 4) andato in sposo alla secondogenita Mafalda nel 1925.

Figura 4

Figura 4

Nella maggior parte dei casi si trattava di acquisti, effettuati per il tramite di suoi incaricati di fiducia, presso commercianti o in occasione di vendite all’asta, italiane o straniere, di singoli pezzi o di gruppi di monete appartenenti ad altre collezioni, per i quali registrava il nome della persona o la casa d’aste presso cui era avvenuto l’acquisto e il prezzo che era stato pagato (fig. 5): ricorre più volte l’annotazione di acquisti effettuati presso il noto numismatico Ortensio Vitalini, assai attivo sulla piazza di Roma, da cui acquistò nel 1902 uno scudo, in oro, di Pio VIII del 1830 al prezzo di lire 400 (n. 1), o presso Francesco Sarti di Bologna che fu colui che ebbe il merito di aver iniziato alla scienza medaglistica il giovane principe Umberto (n. 2), o presso le case d’asta di Giuseppe Morchio di Venezia (n. 3) o di Rodolfo Ratto di Milano (n. 4), presso le quali acquistò esemplari provenienti da importanti collezioni, come quella Morosini o del colonnello Ruggero, quest’ultimo suo valido collaboratore nella stesura del Corpus.

Figura 5

Figura 5

L’interesse di tali cartellini risiede dunque essenzialmente proprio nella registrazione delle provenienze. Essi infatti, non hanno la presunzione di una vera e propria catalogazione del pezzo - che invece veniva affidata ad una più esauriente schedatura, completa di tutti gli altri dati identificativi (autorità emittente, epoca, anno di emissione, zecca, analitica descrizione del dritto e del rovescio) e che avrebbe visto la luce nella pubblicazione dei venti volumi del Corpus Nummorum Italicorum -, ma tradiscono la dedizione e la meticolosa attenzione che il re poneva nel classificare le proprie monete e testimoniano l’origine e il percorso di ciascun pezzo, permettendo di risalire alle fonti da cui Vittorio Emanuele riceveva le monete e di ricostruire così anche importanti nuclei di esemplari – gruzzoli o raccolte private – acquisiti in blocco e smembrati all’interno della collezione, secondo un criterio prettamente collezionistico: è questo il caso della grandiosa collezione del marchese e senatore Filippo Marignoli, ricca di oltre 30.000 pezzi, acquistata dal re nel 1900 per il tramite del cav. Ortensio Vitalini, al prezzo di lire 600.000. Per l’immissione delle monete provenienti dalla collezione Marignoli, che a mano a mano andava inserendo tra quelle della sua raccolta, Vittorio Emanuele fece predisporre dei cartellini prestampati, recanti la scritta “Raccolta Marignoli, 1900” (fig. 6).

Figura 6

Figura 6

Se da un lato, dunque, il pregio di questi cartellini risiede fuor di dubbio nella messe di informazioni che possiamo trarre relativamente ai contatti e alla rete di collegamenti che il re aveva occasione di tessere, personalmente o attraverso incaricati di sua fiducia, e ci offrono anche uno spaccato della sfera privata del sovrano, dall’altro nascondono il difetto di non consentire sempre la verifica dell’esatta corrispondenza di “quel” dato, relativo alla provenienza, con la moneta ad esso associata: la mancanza infatti di una qualsiasi numerazione, spesso impedisce di instaurare un sicuro collegamento di tali cartoncini con le oltre 100.000 monete presenti in collezione. Inoltre in molti casi essi risultano redatti in epoche diverse e da estensori differenti e contengono annotazioni manuali e talvolta meccaniche, come la registrazione di un numero, ad esempio il peso della moneta o l’anno, facilmente suscettibili di sviste o refusi. La mancanza, poi, di una documentazione puntuale relativa alla collocazione delle monete nei cassetti conseguente ai cambiamenti intervenuti per mano del re nella collezione, sia in merito alla sua consistenza, sia alla classificazione dei pezzi, non consente di ricostruire gli avvicendamenti, i ripensamenti, gli aggiornamenti che una raccolta viva e dinamica ha subito nel tempo. Sappiamo ad esempio che con la sua ascesa al trono, la passione che il re nutriva per le monete, fatto fino a quel momento noto prevalentemente nell’ambiente numismatico, ora diventa di pubblico dominio e lo stesso re lamenta il poco tempo da dedicare al riordino delle sue monete; in una lettera indirizzata nel 1901 al generale Osio, suo antico precettore, scrive: “…me ne mandano da tutte le parti, ma la mia raccolta, fusa con la Marignoli e con molti altri pezzi è in uno stato lagrimevole. Chissà quando la potrò riordinare!![2]. Del resto abbiamo già parlato di precedenti risistemazioni della collezione: abbiamo già visto che quella più imponente risale al 1896 e fu in quell’occasione che inserì i cartellini con le provenienze. Poi, intorno agli anni 1922-1923, decise di riordinare le sue monete in 60 armadi di legno fatti costruire appositamente e di questa nuova sistemazione abbiamo testimonianza nel diario del generale Silvio Scaroni, aiutante di campo di Vittorio Emanuele dal 1933 al 1935, dove vengono ricordate le parole pronunciate dal re nel giorno in cui gli mostrò la collezione: “In queste stanze ho messo tutti questi armadi uguali; sono 60 in tutto. I primi tre contengono tutte le monete della mia famiglia. Poi cominciano le regioni in ordine alfabetico….. L’ultima volta che ho cambiato l’ordine di queste monete mi ci son voluti tre anni. Vorrei ritoccare ancora l’ordine attuale della collezione, ma mi ci vorrebbe parecchio tempo per spostare tutti quei pezzi[3]. L’occasione venne offerta con la dismissione dei vecchi armadi di legno ed il trasferimento delle monete nei nuovi armadi metallici fatti predisporre alla fine del 1936, che ancora oggi le contengono (fig. 1). Non sappiamo se la predisposizione dei feltrini colorati posti sotto le monete risalga a quell’epoca.
Nella consultazione della collezione dunque non possiamo prescindere da queste diverse fasi di riordino dovute a mutamenti e nuove esigenze intervenuti nel tempo man mano che la collezione cresceva e aumentava di consistenza, man mano che lo spirito critico del suo raccoglitore si affinava e dove i ripensamenti, gli aggiustamenti, le intuizioni scaturivano nel momento in cui si manifestavano. Del resto, qualsiasi documento viene prodotto in un determinato contesto e l’informazione in esso contenuta deriva proprio dalla conoscenza di entrambi: e, al di là del dato “provenienza”, le annotazioni presenti sui cartellini sono il frutto di una predisposizione temporale, mentale e tutta umana, legata al pensiero e all’esigenza di quel determinato momento che l’hanno generate.
Da qui l’ovvia conseguenza che anche i cartellini presenti nella Collezione Reale offrono una vasta gamma di tipologie legate al contesto storico, alla diversa predisposizione, all’attenzione o alla disattenzione che l’estensore, o gli estensori, ponevano in quel determinato momento.

Figura 7

Figura 7

Vediamo alcuni esempi (fig. 7):
Al n. 1 ci troviamo di fronte ad un cartellino redatto interamente da un’unica mano, riconducibile a quella del re.
Al n. 2 abbiamo un cartellino redatto da due mani diverse, con inchiostri diversi (nero e rosso), presumibilmente in tempi diversi.
Ai nn. 3-4 abbiamo due cartellini redatti con grafie e inchiostri diversi (rosso e nero chiaro) e i pesi in rosso vengono poi corretti con altro inchiostro, presumibilmente in altro momento.
Al n. 5 abbiamo un cartellino che non riporta alcuna indicazione di nominale, ma registra solamente un peso di g. 4,30 e la provenienza “1896”.
Al n. 6 è registrato al posto del nominale un punto interrogativo, un peso di g 6,75 e la provenienza.
Al n. 7 abbiamo un cartellino che non registra alcun peso, ma vi è l’indicazione del nominale e della provenienza.

Figura 8

Figura 8

Vi sono poi casi di errata registrazione dei dati (fig. 8):
n. 1. Siamo in età pontificia, zecca di Roma, Pio IX, anno di pontificato XVII: in questo caso abbiamo un cartellino che registra un “doppio giulio” di g 1,70 immesso nella collezione prima del “1896”.
n. 2. La moneta soprastante questo cartellino è un pezzo da “20 baiocchi” del 1863, anno XVII, che pesa g 5,69.
n. 3. Il registro topografico Oddo riporta, sotto il 1863, anno XVII, un “doppio giulio”.
n. 4. Il Corpus, al volume XVII, p. 302, n. 177, registra un “doppio giulio o papetto” del 1863, anno XVII, di g 5,70.
E’ pertanto evidente l’errore di trascrizione del peso sul cartellino.

Figura 9

Figura 9

Altro esempio (fig. 9):
n. 1. Siamo in età pontificia, zecca di Bologna. Autorità emittente: Pio IX, anno IV di pontificato: abbiamo un cartellino che registra l’indicazione di un nominale “da baiocchi 4”, del peso di grammi “40,20” e con il dato provenienza “1896”.
n. 2. Al cartellino è associata una moneta “da 5 baiocchi” di Pio IX, anno IV di pontificato, emessa nel 1850 dalla zecca di Bologna, del peso di g 40,25 (rilevato con strumentazioni moderne).
n. 3. Il vol. X del Corpus, relativo alle zecche emiliane, alla p. 399 n. 23, sotto la data 1850 riporta un pezzo appartenente alla Collezione Reale (come si evince dalla sigla SM, cioè Sua Maestà, posta in calce alla scheda), “da 5 baiocchi” del peso di grammi 40,20.
n. 4. La stessa indicazione relativa al nominale è riportata sul registro topografico del cassetto, che registra la presenza di un pezzo “da 5 baiocchi”.
Anche in questo caso è evidente l’errore di trascrizione del cartellino.

Figura 10

Figura 10

A testimoniare quanto sopra espresso circa l’opportunità di contestualizzare le informazioni riportate sui cartellini, riconducendole a tempi, luoghi e situazioni, non mancano esempi di cartellini tra loro difformi nella registrazione dei dati delle monete a cui sono associati, nonostante i pezzi presentino le stesse caratteristiche (fig. 10):
n. 1. In questo cassetto, di cui mostriamo solamente il particolare per consentire una migliore visione, nella seconda fila vi sono due monete visibilmente battute fuori conio contraddistinte con i numeri, 589 e 590 (numerazione moderna).
nn. 2-3. Alla moneta contrassegnata con il n. 590, è associato un cartellino che riporta anche l’annotazione “scherzo di zecca”.
nn. 4-5. La moneta contrassegnata invece con il n. 589, immediatamente precedente, pur presentando lo stesso difetto di battitura, è associata ad un cartellino che non ne fa menzione.
La differenza della redazione delle informazioni contenute nei due cartellini, nonostante le caratteristiche dei pezzi ad essi associati siano le stesse, è dunque senza dubbio legata alla distanza temporale di immissione in collezione dei due pezzi, avvenuta rispettivamente nel 1920 (n. 590) e nel 1933 (n. 589).

Non mancano infine casi in cui in un cassetto troviamo due esemplari collocati nello stesso alloggiamento, ma ad essi è associato un solo cartellino recante dati afferenti ad una sola delle due monete (fig. 11).

Figura 11

Figura 11

Questi sono solo alcuni esempi tratti da un piccolo lotto di monete di epoca pontificia, ma che già fanno sorgere naturale una riflessione: che valore documentale hanno tali cartoncini? Sono essi da considerarsi documenti assoluti e imprescindibili o piuttosto annotazioni manoscritte e dunque suscettibili di variazioni se non addirittura di errori? A quale categoria di “documenti” si possono ascrivere? Sono da considerarsi alla stregua di documenti ufficiali, o piuttosto scritture redatte, anche da persone diverse, in determinate circostanze di tempo e di luogo, specchio della predisposizione interiore e dell’attenzione umana legata a “quel” determinato momento e pertanto variabili e spontanee piuttosto che stereotipi fissi e inalterabili? E quale deve essere il ruolo del conservatore della raccolta di fronte a tali informazioni: di assoluta e passiva accettazione di tutto ciò che esse riportano o piuttosto di critica verifica e di dinamico aggiornamento? Sono questi gli interrogativi che emergono dall’analisi di quanto visto sin’ora, alla risoluzione dei quali un grosso aiuto verrà offerto dalla banca dati Ivno Moneta, progetto finalizzato alla tutela, fruizione e valorizzazione del patrimonio numismatico nazionale, varato dal Portale del Bollettino di Numismatica della Direzione Generale per le Antichità del Ministero per i Beni e le Attività Culturali nell’ambito del Portale Modus - Biblioteca Virtuale dello Stato, infrastruttura telematica dedicata alla Pubblica Amministrazione, promossa dal Ministero dell’Economia e delle Finanze e realizzata dall’Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato. Una automatizzazione di tutte le informazioni contenute nei cartellini consentirà infatti non soltanto di ricostruire la miriade di contatti che il re aveva per il reperimento dei pezzi, di riunificare sulla carta le numerose collezioni assorbite e i ripostigli inseriti, con grande vantaggio per gli studi di storia economica italiana, ma anche di riassociare dati che l’intervento umano può aver dissociato e ricostruire operazioni di scambio, nuove immissioni o eliminazioni di pezzi che una collezione viva e dinamica, come quella reale, può aver subito nel tempo.

Note

[1] Travaini 1991, con bibliografia precedente.
[2] Travaini 1991, p. 155.
[3] Scaroni 1954, pp. 77-78.